Titti che sarà fuori per Natale: «In cella è nata un'altra donna»
Grazie a un permesso concessole dalla direzione dell'istituto di pena di Reggio Calabria, Titti potrà riabbracciare i suoi cari per un giorno. «Sto scontando la pena, ma il carcere mi ha già cambiata»

C’è un albero di Natale all’ingresso della casa circondariale "Panzera" di Reggio Calabria, dove centinaia di uomini e di donne che hanno sbagliato stanno scontando la loro pena.
L’abete ci accoglie appena varcato il portone dell’istituto di pena, insieme alla direttrice del carcere Maria Carmela Longo. «Questo è il quindicesimo Natale che trascorro in questo Istituto penitenziario – spiega – ed è sempre un momento di grande fede e partecipazione da parte di tutti i detenuti». Il Natale è un tempo che «induce a riflettere sul proprio vissuto e a volgere lo sguardo oltre il presente». D’altronde questa è la funzione del carcere: «Una volta usciti, si deve avere la possibilità concreta di essere persone diverse rispetto a quella che si era al momento dell’ingresso».
Accanto alla direttrice c’è monsignor D’Anna – per tutti don Giacomo – storico cappellano della casa circondariale reggina dal 2004 al 2018: proprio all’inizio di questo mese e dopo ben 14 anni di servizio ha passato il testimone a padre Carlo Cuccomarino Protopapa. «In questo luogo si vive l’umanità: si tocca con mano ciò che si è veramente, senza finzioni o "coreografie". L’uomo nudo, come Gesù nella mangiatoia, che si presenta con i suoi limiti, le fragilità, i peccati e gli errori», dice monsignor D’Anna spiegando anche lo stile della pastorale carceraria.
«Un cappellano "si pone accanto": nessuna lezione, nessuna soluzione per i detenuti. Ci siamo messi in cammino sulla via della redenzione: riscatto e conversione sono le parole-chiave per condurre ogni uomo o donna recluso a recuperare la sua dignità». Una sfida tutt'altro che semplice per la natura stessa del carcere reggino: «In questa casa circondariale, che per tanti rappresenta la "prima accoglienza" subito dopo l’arresto, sono transitati negli anni del mio ministero migliaia di fratelli e sorelle. Quelle prime ore e quei primi giorni sono tra i più concitati: si inizia a fare i conti con i crimini di cui si è accusati, ma anche con i primi passi in una realtà spesso sconosciuta come la detenzione. Si viene strappati dai propri affetti: immaginate la sofferenza che si prova. In questo momento proviamo a esserci, con l’obiettivo di essere portatori di speranza proprio nel momento in cui tutto sembra perso».
Don Giacomo ci accompagna da Titti; una donna sulla quarantina, capelli corti, occhi cerulei. È in carcere da quasi 5 anni: sta scontando gli ultimi mesi con la "messa alla prova" del lavoro fuori dalla sezione femminile dove è reclusa. «Siamo madri, siamo mogli, siamo figlie. Il nostro pensiero va alle nostre famiglie. La mia speranza è che, grazie a questo percorso rieducativo ci ritroveremo tutte fuori. Da persone libere». Titti conta i giorni che la separano dal suo ritorno a casa. Ha grande dignità nel raccontarsi, guardandoci sempre negli occhi. Spesso spezza le sue risposte con un sorriso.
Sta già iniziando a prendere confidenza con la libertà proprio grazie al percorso personalizzato che i responsabili dell’area educativa hanno pensato per lei. «In vista dell’ormai prossimo Natale, sto vivendo l’emozione di poter andare in permesso a casa per riabbracciare la mia famiglia. Devo ammettere che, nella mia quotidianità, all'interno dell’istituto vivo una condizione altrettanto "familiare": può sembrare paradossale, ma è così».
In effetti queste celle, col passare del tempo, diventano una "seconda casa" soprattutto quando – accanto alla sofferenza della condizione di detenuta – si affiancano presenze silenziose ma costanti. Un paradosso, certamente: individui a cui è sottratto il bene più prezioso, la libertà, che riescono a trovare e condividere sentimenti genuini come quello dell’amicizia, seppur nei limiti della carcerazione.
Il percorso è lungo, tortuoso, non mancano le ferite ancora aperte che nel continuo esercizio della rielaborazione di sé tornano a galla. Titti lo confessa: «Sono tornata a ripensarmi come una persona: qui dentro siamo categorizzati come delinquenti e questo è un macigno che ci portiamo sulle nostre spalle. Probabilmente il grande passo in avanti è proprio questo: io sto scontando la mia pena, ma non passa giorno in cui non credo di essere una persona nuova, una volta uscita da qui».
L’abete ci accoglie appena varcato il portone dell’istituto di pena, insieme alla direttrice del carcere Maria Carmela Longo. «Questo è il quindicesimo Natale che trascorro in questo Istituto penitenziario – spiega – ed è sempre un momento di grande fede e partecipazione da parte di tutti i detenuti». Il Natale è un tempo che «induce a riflettere sul proprio vissuto e a volgere lo sguardo oltre il presente». D’altronde questa è la funzione del carcere: «Una volta usciti, si deve avere la possibilità concreta di essere persone diverse rispetto a quella che si era al momento dell’ingresso».
Accanto alla direttrice c’è monsignor D’Anna – per tutti don Giacomo – storico cappellano della casa circondariale reggina dal 2004 al 2018: proprio all’inizio di questo mese e dopo ben 14 anni di servizio ha passato il testimone a padre Carlo Cuccomarino Protopapa. «In questo luogo si vive l’umanità: si tocca con mano ciò che si è veramente, senza finzioni o "coreografie". L’uomo nudo, come Gesù nella mangiatoia, che si presenta con i suoi limiti, le fragilità, i peccati e gli errori», dice monsignor D’Anna spiegando anche lo stile della pastorale carceraria.
«Un cappellano "si pone accanto": nessuna lezione, nessuna soluzione per i detenuti. Ci siamo messi in cammino sulla via della redenzione: riscatto e conversione sono le parole-chiave per condurre ogni uomo o donna recluso a recuperare la sua dignità». Una sfida tutt'altro che semplice per la natura stessa del carcere reggino: «In questa casa circondariale, che per tanti rappresenta la "prima accoglienza" subito dopo l’arresto, sono transitati negli anni del mio ministero migliaia di fratelli e sorelle. Quelle prime ore e quei primi giorni sono tra i più concitati: si inizia a fare i conti con i crimini di cui si è accusati, ma anche con i primi passi in una realtà spesso sconosciuta come la detenzione. Si viene strappati dai propri affetti: immaginate la sofferenza che si prova. In questo momento proviamo a esserci, con l’obiettivo di essere portatori di speranza proprio nel momento in cui tutto sembra perso».
Don Giacomo ci accompagna da Titti; una donna sulla quarantina, capelli corti, occhi cerulei. È in carcere da quasi 5 anni: sta scontando gli ultimi mesi con la "messa alla prova" del lavoro fuori dalla sezione femminile dove è reclusa. «Siamo madri, siamo mogli, siamo figlie. Il nostro pensiero va alle nostre famiglie. La mia speranza è che, grazie a questo percorso rieducativo ci ritroveremo tutte fuori. Da persone libere». Titti conta i giorni che la separano dal suo ritorno a casa. Ha grande dignità nel raccontarsi, guardandoci sempre negli occhi. Spesso spezza le sue risposte con un sorriso.
Sta già iniziando a prendere confidenza con la libertà proprio grazie al percorso personalizzato che i responsabili dell’area educativa hanno pensato per lei. «In vista dell’ormai prossimo Natale, sto vivendo l’emozione di poter andare in permesso a casa per riabbracciare la mia famiglia. Devo ammettere che, nella mia quotidianità, all'interno dell’istituto vivo una condizione altrettanto "familiare": può sembrare paradossale, ma è così».
In effetti queste celle, col passare del tempo, diventano una "seconda casa" soprattutto quando – accanto alla sofferenza della condizione di detenuta – si affiancano presenze silenziose ma costanti. Un paradosso, certamente: individui a cui è sottratto il bene più prezioso, la libertà, che riescono a trovare e condividere sentimenti genuini come quello dell’amicizia, seppur nei limiti della carcerazione.
Il percorso è lungo, tortuoso, non mancano le ferite ancora aperte che nel continuo esercizio della rielaborazione di sé tornano a galla. Titti lo confessa: «Sono tornata a ripensarmi come una persona: qui dentro siamo categorizzati come delinquenti e questo è un macigno che ci portiamo sulle nostre spalle. Probabilmente il grande passo in avanti è proprio questo: io sto scontando la mia pena, ma non passa giorno in cui non credo di essere una persona nuova, una volta uscita da qui».
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