Volevano pezzi “da donna”: Nellie Bly diventò la prima reporter

Sul finire dell’Ottocento, la giornalista americana, al secolo Elizabeth Jane Cochran, lottò in un mondo di uomini che la consideravano «scomoda» realizzando coraggiose inchieste "sotto copertura
July 9, 2025
Volevano pezzi “da donna”: Nellie Bly diventò la prima reporter
-- | Nellie Bly, al secolo Elizabeth Jane Cochran
Ci sono storie di persone del passato che, pur non celebri o avvolte dall’oblio, sembrano attenderci per donare speranza. Con Gerolamo Fazzini, già autore un anno fa della fortunata serie sui “protagonisti dimenticati”, apriamo ogni giovedì lungo tutta l’estate un ideale album di testimoni credibili della speranza – nei suoi profili più umani – su cui il Giubileo ci sta invitando a verificare la nostra stessa vita.
«Non era interessata a scrivere di fiori e feste da tè. Voleva scrivere di come il mondo funzionava e, soprattutto, di come non funzionava per le persone che ne subivano le ingiustizie». Leggendo queste righe, a qualcuno sarà venuta in mente Oriana Fallaci, la giornalista italiana più famosa al mondo, inviata di guerra e autrice di interviste memorabili ai Grandi della terra. Oppure Tina Merlin, la corrispondente dell’Unità che, per prima, gettò l’allarme su quella che poi si rivelerà la tragedia del Vajont. Ebbene. Entrambe queste figure di “giornaliste civili” hanno un’antenata comune: una giovane statunitense, Nellie Bly, al secolo Elizabeth Jane Cochran. Le frasi in apertura sono attinte dalla biografia che Brooke Kroeger le ha dedicato nel 1994, dal titolo Nellie Bly: Daredevil, Reporter, Feminist. Sul finire dell’Ottocento è stata lei a cambiare definitivamente le regole del gioco, aprendo le porte del giornalismo anche alle donne, in un’epoca in cui tale professione era pressoché esclusivamente appannaggio degli uomini. Qualche rara eccezione c’era già stata: Margaret Fuller, femminista ante-litteram statunitense e prima corrispondente di guerra in Italia per il New York Tribune nel travagliato ‘48. Ma si trattava, appunto, di una mosca bianca.

Il modo con quale Elizabeth riuscì ad affermarsi è a dir poco rocambolesco e rivelatore della tempra della ragazza. Tutto ha inizio dalla risposta, piccata ma argomentata, che la Cochran invia al giornale della sua città, il Pittsburgh Dispatch, polemizzando con il giornalista Erasmus Wilson. Siamo nel 1885, quasi quarant’anni dopo la prima grande convention femminista di Seneca Fall: il movimento per i diritti delle donne marcia sempre più spedito. Wilson aveva pubblicato un pezzo dal provocatorio titolo “What girls are good for” (“A cosa servono le ragazze?”, che non a caso nel 2018 è diventato il titolo di una biografia romanzata della Bly). Cochrane reagisce con una lettera di protesta firmata con lo pseudonimo Lonely Orphan Girl (“ragazza orfana e solitaria”, come in effetti era, dopo la morte del padre). Il tono dello scritto non passa inosservato: l’anonima autrice viene invitata a presentarsi al giornale. Elizabeth accetta e trova il suo primo lavoro come giornalista. Il suo stile è chiaro e graffiante, alla gente piace. Non potendo firmare con il suo vero nome, gliene viene assegnato uno attinto da una canzone popolare: Nellie Bly.

Ben presto Nellie ipotizza di realizzare il suo primo articolo che oggi chiameremmo di “giornalismo sotto copertura”: «Mi sono spesso chiesta se corrispondano alla realtà le storie raccontate dalle operaie a proposito dei loro bassi salari e del trattamento crudele cui vanno incontro. C’è un solo modo per scoprire la verità e ho deciso di tentarlo: diventare io stessa una di loro». Nelle parole della Bly si avverte l’incosciente entusiasmo della ventenne, ma ancora più forte la curiosità della vera giornalista, la voglia di documentare sul campo, di denunciare l’ingiustizia. Bly trova lavoro in una fabbrica che produce cavi di rame per l’edilizia. Commenta Nicola Attadio nella sua bella biografia “Dove nasce il vento. Vita di Nellie Bly, a free American girl”, pubblicata nel 2017 da Bompiani: «Agire sotto copertura implica audacia, sangue freddo, memoria fotografica, battuta pronta. Nellie scopre di avere tutte queste qualità. E così facendo inaugura uno stile che diventerà una pratica costante del cosiddetto new journalism». Quando il 27 novembre 1887 sul New York World esce il pezzo intitolato «Le ragazze che fanno scatole» con un sommario che recita «Nellie Bly racconta come ci si sente ad essere una schiava bianca», sull’editore piovono le reazioni degli industriali inviperiti. La Bly viene, quindi, dirottata su tematiche più innocue, come la vita di casa e il giardinaggio; il che, ovviamente, non le va a genio. Chiede e ottiene di spostarsi in Messico, come corrispondente dall’estero e, dal Paese sotto la dittatura di Porfirio Díaz, alza la voce contro la violenza e la corruzione. Ma è costretta a fuggire e tornare negli Usa. Il direttore del New York World, a quel punto, le propone di fingersi pazza per farsi internare nel Women’s Lunatic Asylum, in cui si sospettava che le pazienti fossero oggetto di violenze e abusi. Il reportage “Dieci giorni in un manicomio” che Bly coraggiosamente realizza è un’inchiesta che scoperchia un mondo sotterraneo, dove le malate ricevono cibo pessimo, vivono al gelo, sono sottoposte a torture. Molte di loro non sono pazze ma semplicemente “scomode”, fatte internare dai familiari contro la loro volontà. «Una trappola umana per topi. È facile entrarvi, ma, una volta dentro, impossibile uscirne», scrive. Quel reportage è stato poi pubblicato in volume (ancora oggi in commercio) e nel 2015 ha persino ispirato un film. L’effetto della pubblicazione è duplice: da un lato un terremoto politico che porta a una riforma delle strutture psichiatriche della città, dall’altro la definitiva consacrazione della Bly come giornalista d’inchiesta.

Il culmine della notorietà Bly, però, lo raggiunge tre anni dopo, quando compie un’impresa pazzesca («La nostra intrepida reporter viaggia senza la protezione di un uomo», proclama il suo giornale): compiere l’intero giro del mondo in meno degli 80 giorni narrati nel celebre romanzo di Jules Verne. A finanziare il tutto è l’editore del giornale, Joseph Pulitzer, mostro sacro del giornalismo, cui è intitolato l’omonimo, prestigioso premio. Sono soldi ben spesi: l’avventura di Nellie - che utilizza navi, treni, un cavallo e perfino la mongolfiera - è seguita da centinaia di migliaia di persone; venne persino messa in piedi una lotteria per premiare chi avesse indovinato giorno e ora dell’arrivo. Toccando tutti i continenti e riuscendo persino a intervistare Verne ad Amiens, Bly ci mette 72 giorni per tornare a New York, dov’è accolta letteralmente come una diva. Al suo arrivo scoprirà di aver battuto una giornalista di una testata concorrente, che aveva girato il mondo in senso inverso. A quel punto Bly, che aveva iniziato la carriera a Pittsburgh guadagnando 5 miseri dollari alla settimana raggiunge i 25.000 dollari di stipendio l’anno.

Nel 1895 sposa un ricco uomo d’affari, molto più vecchio di lei. Rimasta vedova, assumerà la direzione delle sue aziende. «La fortuna però - scriverà il New York Times all’indomani della sua morte - le voltò le spalle e una serie di falsificazioni da parte dei suoi dipendenti e una serie di cause legali divorarono la fortuna di Nellie Bly. Il suo coraggio e la sua vivacità rimasero, però, intatti e tornò al giornalismo con tutto il suo vecchio spirito». In effetti, ritroviamo la Bly al fronte tra Serbia e Austria durante la Prima guerra mondiale. L’anno prima dello scoppio del conflitto aveva predetto, sul New York Evening Journal, l’imminente concessione del diritto di voto alle donne. Farà appena in tempo a vedere concretizzata, nel 1920, la sua profezia: nel 1922 morirà, a soli 57 anni.
(1 - continua)

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