martedì 6 maggio 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
​«Primum non nocere». Per prima cosa accertati che il tuo pensiero, la tua azione, il tuo impegno non faccia male a nessuno. Nemmeno al tuo nemico, se dovessi averne uno. Prendo in prestito dal mondo medico questo aforisma attribuito a Ippocrate per tornare sull’episodio di sabato sera a Roma. Un atto di violenza inaudita. Efferata. Stupida come tutti gli atti di violenza. Daniele, tifoso della Roma, spara a Ciro, il cui cuore batte per il Napoli. Sul mondo del calcio ognuno ha le sue idee, sulle quali non mi interessa, oggi, soffermarmi. So solo che la violenza – a cominciare da quella verbale – è sempre da condannare. Non ha colori politici e nemmeno sportivi. Il violento – chiunque sia – deve essere dagli stessi amici isolato e aiutato: deve, cioè, sentire che nessuno sarà disposto a condividere un gesto senza senso, che porta solo scompiglio, sofferenza, morte. Deve avvertire intorno a sé il vuoto, perché ogni pur minimo consenso sarebbe un pericoloso incoraggiamento alla sua stupidaggine. Puntare la pistola contro un uomo che nemmeno conosci – fosse anche in risposta a una offesa ricevuta –, provocargli tanta sofferenza, rischiare inutilmente la galera è da folli. O da stupidi. Il fatto può essere letto e interpretato da diversi punti di osservazione. Un episodio stupendo però è stato colto dalle cronache. Troppo bello per passare inosservato. All’uscita dall’ospedale dove è ricoverato il figlio, Antonella, la mamma di Ciro, viene fermata dai giornalisti. Queste le sue parole: «Ragazzi, la vita è un dono meraviglioso. Godetevela. Divertitevi. Ma non fatevi male...». E lo sparatore? «Ha fatto una mostruosità. Nel mio cuore non c’è odio, e poi a che serve, l’ho già perdonato. Però non riesco a capire quello che ha fatto». Sono convinto che se Antonella potesse incontrare la mamma di Daniele, le due donne, piangendo, si getterebbero le braccia al collo. Abbiamo bisogno di persone come queste che pur attraversando il buio del dolore e del non senso non cadono nella trappola del desiderio di vendetta. Sabato mattina eravamo a Roma per il funerale di Roberto Mancini, il vice-commissario di polizia che si ammalò di leucemia anche per aver svolto per anni il suo lavoro di investigatore tra le discariche di rifiuti tossici e nocivi nella nostra martoriata Terra dei fuochi. Per me è stato un dovere accogliere l’invito a presiedere la celebrazione eucaristica rivoltomi dalla sua famiglia. Verso il romano Roberto Mancini noi campani abbiamo un debito di riconoscenza. Alla signora Monika, sua moglie, e alla figlia Alessia ho chiesto il permesso di considerare Roberto anche un poco nostro, perché persone come lui sono di tutti. Mancini è stato un uomo. Un uomo di cui ti puoi fidare, un uomo che ha fatto onore alla divisa che indossava e di cui l’Italia deve andare fiera. Persone come Roberto e come Antonella hanno da insegnare tantissimo ai nostri giovani. Per i violenti che procurano solo inutili e dolorosi drammi proviamo tanta pena, ma nessun odio. A che servirebbe? A farci più male ancora? L’odio è un veleno che prima di avvelenare chi lo riceve uccide chi lo porta in cuore. Dall’odio nasce la violenza, la violenza a sua volta partorisce sofferenza e morte. Anche per loro, invece, non smettiamo di sperare che possano ravvedersi e chiedere perdono. Possano sentirsi amati e ritornare a vivere. Dobbiamo imparare a convivere senza farci male. Troppo poco il «primum non nocere», dobbiamo, noi cristiani di antica data, riscoprire le belle parole di Gesù che ci invita non solo a rispettare ma ad amare e servire il prossimo. Chiunque sia.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: