venerdì 7 agosto 2020
Per il docente di Diritto del lavoro alla Bocconi ed ex presidente dell'Anpal occorre puntare sull’occupabilità e non sul blocco dei licenziamenti
Il giuslavorista Maurizio Del Conte

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« Il problema non è la proroga del blocco dei licenziamenti, ma creare le condizioni per facilitare l’occupabilità dei lavoratori ». Maurizio Del Conte, docente di Diritto del lavoro alla Bocconi di Milano e presidente di Anpal dal 2016 al 2019, è preoccupato per queste discussioni che «non fanno bene al nostro mercato del lavoro».

Sembra sia stato trovato un accordo per evitare nuovi disoccupati…
In realtà si sta spostando in avanti il vero problema. Si sta "comprando" tempo, facendo un danno alle aziende e agli stessi dipendenti. Alcune previsioni hanno calcolato che nei prossimi mesi ci saranno comunque oltre 500mila disoccupati. Il blocco dei licenziamenti ha avuto un senso quando c’è stata la chiusura delle attività produttive e gli ammortizzatori sociali hanno coperto il costo del lavoro. Ora corriamo il rischio di creare derive assistenzialistiche.

In che senso?
Le politiche di welfare e di protezione sociale devono cambiare. Soprattutto ora che si attendono i fondi europei per il rilancio dell’economia. La cassa integrazione non ha più ragione di essere in questa fase. Purtroppo siamo ancora in presenza di una visione miope e alla ricerca del consenso, che vede una convergenza di interessi da più parti. Siamo bravi a inventarci le deroghe, ma non a risolvere il problema. Anche i sindacati sono a metà del guado. Minacciare di scendere in piazza non serve: rischiano un ruolo di retroguardia. Invece serve il dialogo con gli imprenditori per migliorare le condizioni di lavoro e l’occupabilità delle persone.

Cosa suggerisce?
Abbiamo scambiato il valore del lavoro con quello del salario. Invece dobbiamo rimettere in moto le persone, il Paese e l’economia. Dobbiamo abituarci a programmare e a creare le condizioni per l’occupazione. Ecco perché è necessario investire nella formazione continua. È in- dispensabile puntare sempre di più sul digitale. Altrimenti creiamo dei lavoratori 'analfabeti' che non avranno più mercato.

Qual è il suo giudizio sulle politiche del lavoro italiane rispetto all’Europa?
Dagli anni 2000 l’Unione Europea, con il Trattato di Lisbona, insiste sull’aggiornamento delle competenze dei lavoratori. Purtroppo l’Italia è in ritardo. Le risorse sono ancora insufficienti a consentire il ricollocamento dei lavoratori licenziati o dei disoccupati. Il Reddito di cittadinanza è incompleto: il rafforzamento dei Centri per l’impiego e la creazione della figura del navigator, pur contribuendo a combattere la povertà assoluta, hanno avuto risultati poco incoraggianti sul fronte dell’avviamento a lavoro dei suoi beneficiari. Inoltre, i fondi europei destinati alla formazione professionale sono stati distribuiti malissimo, senza un’adeguata programmazione che tenesse conto della domanda di competenze delle imprese. Con il risultato che non è stato colmato quel divario esistente tra regioni ricche, che hanno potuto offrire politiche attive per il lavoro migliori, e quelle più povere, che hanno avuto maggiori difficoltà a dotarsi di Centri per l’impiego in grado di rispondere all’emergenza occupazionale.

Tutta colpa della pandemia?
In realtà la crisi del mercato del lavoro provocata dal Covid-19 non basta da sola a spiegare il preoccupante tasso di disoccupazione e le disuguaglianze economiche che affliggono il nostro Paese. Già prima della pandemia, giovani e meno giovani dovevano spesso accontentarsi di contratti precari per entrare in azienda.

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