martedì 22 settembre 2020
La gendarmerie senegalese indaga sulle cause. È l'ultimo mistero di una figura storica e discussa dei servizi segreti italiani
L'ex 007 Anghessa morto a Dakar: voleva testimoniare sul caso Toni-De Palo
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Lo hanno trovato morto nella sua casa di Dakar, senza evidenti segni di violenza. Aldo Anghessa, 76 anni, in codice 'Alfa Alfa', figura storica e discussa dei servizi segreti italiani («Un nome che fa drizzare i capelli in testa» disse un membro del Copasir), sarebbe spirato per cause naturali. Il condizionale è d’obbligo, trattandosi di un uomo che ha attraversato le vicende più oscure degli ultimi 40 anni, inseguendo traffici d’armi e rifiuti tossici. E che fino a pochi giorni fa stava benissimo. «Ma non alimentiamo complottismi, lasciamolo in pace almeno nel suo ultimo viaggio – sospira il figlio –. Certo, trattandosi di lui non c’è nulla di scontato. La gendarmerie senegalese, con cui aveva buoni contatti, sta indagando per fare piena chiarezza». Ce ne sarà bisogno. Perché Anghessa era tornato in scena per il caso di Italo Toni e Graziella De Palo, i due giornalisti scomparsi in Libano il 2 settembre 1980 mentre seguivano un traffico d’armi. L’inchiesta è stata riaperta e Anghessa, all’epoca in servizio proprio nella stazione Sismi di Beirut, aveva appena rivelato alla famiglia De Palo che Graziella era prigioniera dei miliziani palestinesi, e che lui era pronto a guidare un blitz per liberarla. Ma l’operazione saltò per una soffiata.

«Sapevano che saremmo arrivati. Sarebbe stato un bagno di sangue, fummo costretti a rinunciare». Un testimone prezioso, che i De Palo avrebbero voluto portare davanti al pm, anche perché profondo conoscitore di certi ambienti, mai abbandonati. «Quelli come noi non vanno in pensione. E i nostri bar non chiudono nemmeno durante il lockdown...» buttava lì mentre partiva per un imprecisato viaggio nel deserto del Mali, terra di terroristi e trafficanti che qualcuno deve pur tener d’occhio. Per alcuni era un venditore di fumo, per altri una fonte più che attendibile. «Mai ricevuto smentite alle sue informazioni, che magari mi passava durante una cena all’Hotel Gallia di Milano. Un gran signore» sottolinea un cronista di lungo corso. Entrato e uscito da cento inchieste, a volte da indagato e altre da investigatore, Anghessa era un attore di quel teatro delle ombre che oggi va di moda definire deep state: agenti che si muovono dietro le quinte, in bilico tra bluff e realtà. Bucò le pagine di cronaca nel 1987, quando a Bari fermarono la Boustany One, una nave imbottita di armi arrivata dal Libano.

Il regista dell’operazione era lui. Arrestato, fu subito prelevato dai servizi: «È uno dei nostri». Cioè un infiltrato. A suo agio nei panni della simpatica canaglia, si muoveva con disinvoltura nelle stanze di magistrati e forze dell’ordine. A metà anni ’90 sbarca a Vico Equense, dove i carabinieri conducono la delicatissima inchiesta 'Chèque to chèque' su traffici d’armi e valuta. Gli mettono a disposizione la caserma, lui sente i testimoni. Un fatto che nemmeno un comandante generale dell’Arma, in commissione d’inchiesta, saprà spiegare. Quando invece capitava a Milano, 'Alfa Alfa' rispondeva dal telefono di un alto dirigente della questura. Una volta piombò a Vicenza scortato da quattro fuoristrada neri, per far luce sul pestaggio di un tecnico informatico ad opera di alcuni carabinieri, veri o presunti (non si è mai capito). Di mezzo c’erano dei dischetti con movimenti bancari da capogiro, estero su estero, con nomi scottanti.

Vicende da fiction, con Anghessa sempre protagonista, nel bene e nel male. «Vorrei che a mio padre fosse restituito almeno l’onore. È stato scaricato e caricato più volte dai servizi, ma se era ancora al suo posto un motivo c’era...» dice il figlio, lasciando intendere che il 'dottor Campari' (uno dei suoi alias) non era in Africa a svernare. Certo, qualche pausa se la concedeva: «Venga a trovarmi, qui le aragoste sono ottime». Una frase degna di 007. Anche se lui, in verità, preferiva pane, formaggio e prosecco.

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