sabato 19 dicembre 2015
A Milano sono circa 200 i giovani sudamericani che appartengono a una gang. Il pm: capaci di gesti feroci per l’alcol. di Lucia Capuzzi
IL RACCONTO Arruolato a 13 anni, portavo il machete
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​Il "Matiné" s’intravede a malapena nella luce agonizzante delle 17. È la folla fuori a far capire è quello è "il luogo": il ritrovo abituale dei latinos milanesi under 30, spesso under 18. Italiani di nascita, a volte, altre di adozione, figli di migranti la maggior parte, ansiosi di riappropriarsi dei ritmi dei loro Paesi d’origine. Musiche raggaeton, bachata, perreo soprattutto. Perché la tradizionale salsa «è da vecchi», dicono. Ma il "Matiné" è molto di più: è una zona franca dove dar libero sfogo alla propria "latinidad" senza  timore di essere diversi. Perché qui latino vuol dire alla moda, trendy. Scovarlo non è stato semplice. Inutile cercarlo su Google: ufficialmente il "Matiné" non esiste. Il locale, situato nella zona sud di Milano, ha un altro nome. Ai ragazzi, però, non importa: per loro è solo il "Matiné", la discoteca in cui la domenica si balla dal pomeriggio fino alle 22-23. Perfetto per i più giovani che hanno la scuola l’indomani. Sono loro i primi ad arrivare: l’obiettivo è entrare prima delle 18, quando non si paga. In fila si susseguono adolescenti con cappellini, pantaloni larghi, rosari al collo come catenine. Li portano anche i molti non latinos presenti: italiani, maghrebini, perfino cinesi. Compagni di scuola, amici, fidanzati - soprattutto fidanzate - ammessi al rito collettivo. O meglio alla prima parte. Man mano che il tempo scorre, i più piccoli e gli "stranieri" vanno via. «E iniziano ad arrivare loro», spiega ad Avvenire Ismael Rafael, fonte preziosa in quest’inchiesta citato con un nome di fantasia. Non aggiunge altro. È implicito che si riferisca ai pandilleros, gli esponenti delle gang latine (pandillas) di cui si parla, in genere, in occasione di qualche episodio di cronaca nera o per una retata. Come i quattro che hanno colpito con un machete un ferroviere. Poi, cala il silenzio. Fino al fatto successivo. Resta, in sottofondo, un pregiudizio strisciante verso i giovani sudamericani, scambiati per pandilleros per un comune modo di vestire, a sua volta mutuato dagli Stati Uniti.

Un murales "latinos" al Parco Trotter di MilanoAd alimentare la confusione, la scarsa conoscenza del fenomeno gang, sotto o sovra stimato a seconda del momento. Non tutti i gruppi latini sono bande e vere proprie. Alcuni adolescenti latinos - spesso in Italia per ricongiungersi ai genitori dopo anni di separazione - formano compagnie di affini: si ritrovano al parco, spesso bevono e fumano marijuana, difficilmente, però, vanno oltre la bravata. Altra cosa sono le gang "strutturate" (almeno in parte), come la Mara Salvatrucha (MS), la Mara Barrio 18 (M18), Latin Kings e Ñetas. Nomi che fanno paura se si pensa all’ondata di barbarie che Ms e M18 generano in El Salvador, la nazione più violenta al mondo. Le maras made in Milan - come le altre gang principali - sono, per fortuna, una pallidissima imitazione. Ne fanno parte tra i cento e i 200 ragazzi, in genere giovani adulti: i più grandi hanno tra i 30 e i 35 anni, i più piccoli 14-15. La quota dei minori varia a seconda del momento, come quella di donne. Le ragazze sono, spesso, fidanzate degli hermanos (fratelli, esponenti della banda) e partecipano, come tali, alle attività più soft: i pomeriggi al parco - quelli delle zone periferiche, tipo Trotter, Martesana, Corvetto, Porto di Mare o Bisceglie -, le domeniche in discoteca, qualche gita fuori porta. Molto meno sono le vere pandilleras: giovani che si sottopongono al pestaggio di iniziazione, si tatuano, hanno un alias - il  soprannome con cui si chiamano fra loro - e combattono contro le bande rivali. Il perché non lo sanno nemmeno loro. «Sono traditori», si limitano a dire.

L’invenzione del nemico dà uno scopo al gruppo. E giustifica il fatto di girare armati di coltello o machete, nascosto nelle gambe larghissime dei pantaloni. Gli attacchi agli "altri" possono essere organizzati o casuali: sempre sono risse furibonde in cui, a volte, volano pugnalate e perfino qualche proiettile. Codici simili, nella forma esterna, alle aggregazioni della nazione d’origine, da cui prendono il nome e con cui hanno sporadici contatti. Quando nasce una nuova banda all’estero, il capo riceve una sorta di via libera dall’America Latina. Più una carta da spendere con i suoi che un autentico sodalizio criminale. «È un’appartenenza, non un vero e proprio apporto», spiega ad Avvenire il pm Enrico Pavone, che ha condotto le ultime inchieste sulle gang milanesi. Del resto, queste ultime hanno ben poco da apportare. In patria, le bande sono mafie internazionali, potenti e feroci, qui sono gruppi di sbandati, tagliati fuori dal grande business criminale. «La delinquenza organizzata, nazionale e straniera, li considera inaffidabili e, dunque, non delega loro la gestione di un traffico. I pandilleros mantengono la banda con piccoli furti e rapine – aggiunge Pavone –. Ciò non significa che non rappresentino un pericolo: anche per il forte consumo d’alcol, gli esponenti sono capaci di gesti feroci, dal colpo di machete, al pestaggio, perfino all’omicidio». Ai danni dei giovani dei gruppi rivali o degli "estranei". Lo sa bene Ismael Rafael, ex membro di Ms in Salvador: aver parlato con chi scrive e averla accompagnata nei luoghi "caldi", gli è costata una ferita di coltello - per fortuna lieve - all’uscita del Matiné.
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