giovedì 5 ottobre 2023
Il Comune di Venezia si scaglia contro i giornali e l'ipotesi che il pullman sia caduto perché c'era un interruzione nella protezione
I fiori deposti nel punto in cui il bus ha divelto la barriera ed è precipitato rovinosamente dal cavalcavia di Mestre, inghiottendo 21 vite

I fiori deposti nel punto in cui il bus ha divelto la barriera ed è precipitato rovinosamente dal cavalcavia di Mestre, inghiottendo 21 vite - Ansa

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Da un lato le immagini satellitari di Google maps e i risultati dei primi sopralluoghi (anche dei giornalisti che ieri hanno affollato Mestre): dal guardrail su quel maledetto cavalcavia manca un tratto. Un “buco”, insomma, che potrebbe addirittura aver determinato il disastro e che insieme alle condizioni obsolete della barriera di protezione è tra gli elementi ora al vaglio della procura di Venezia. Dall'altro la versione del Comune: «Si tratta di affermazioni inaccettabili. Il bus non è caduto perché “c'era un buco” di un metro e mezzo nel guardrail. Quel buco è un varco di sicurezza, di servizio, previsto dal progetto originario del manufatto» precisa piccato l'assessore comunale ai trasporti Renato Boraso. Secondo cui «l'autobus è caduto 50 metri dopo il varco, dopo aver strisciato sul guardrail, senza segno di frenata o contro-sterzata. O vogliamo dire che senza il “buco” la barriera avrebbe tenuto un mezzo in corsa, che sbanda, di 13 tonnellate?». Quello che è certo è che da diverse settimane il Comune di Venezia ha avviato i lavori di rifacimento del cavalcavia, attualmente in pessimo stato e corroso dalla ruggine. Un progetto dal costo di oltre 6 milioni di euro in cui è compresa anche una nuova barra di protezione a difesa dalle uscite di strada.


Sgomento, incredulità, partecipazione al dolore altrui. Tutti abbiamo sperimentato questi sentimenti apprendendo dell’incidente. Ci aiuta a mettere ordine nel cuore il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, subito accorso a Mestre martedì notte. «Il pensiero – riflette – va immediatamente alla precarietà della vita umana, nonostante le conquiste e le nostre presunte sicurezze. L’uomo è davvero come l’erba e i fiori del campo, un soffio: ce lo ricorda, nella preghiera, il salmo e ce lo ricordano, nella vita, in modo drammatico, tragedie come questa. Pensiamo al Covid, alla guerra in Ucraina o al fenomeno strutturale delle migrazioni che porta con sé drammi personali e di interi popoli. Lunedì celebrerò la Messa al cimitero di Longarone per i 60 anni del Vajont, una tragedia che si poteva evitare e costò la vita a duemila persone tra cui molti bambini e giovani. L’uomo spesso pensa d’esser giunto a un punto in cui è pienamente garantito e tutelato, e invece...».

La domanda prepotente davanti a simili drammi è: perché?

Di fronte al dolore non c’è mai una risposta immediata. E dinanzi al dolore che tocca gli innocenti, soprattutto i bambini, tutto appare incomprensibile. Abitiamo la società della tecnoscienza e delle intelligenze artificiali eppure la domanda più umana che si possa dare è: perché il dolore? Non c’è algoritmo capace di elaborare una risposta. Dinanzi al dolore non ci sono risposte esaustive: proprio per questo, come credenti, ci apriamo all’oltre di Dio. Il limite comunque rimane la cifra dell’uomo. Siamo creature, non Dio, non siamo onniscienti. Sconfitte e sofferenze, come gioie e speranze, fanno parte della nostra vita.

I corpi delle vittime in fila sotto il cavalcavia

I corpi delle vittime in fila sotto il cavalcavia - Fotogramma

Cosa ci dice la fede?

La fede ci aiuta a riscoprire il senso del limite, inteso come cifra del nostro essere creaturale, e ci rende consapevoli della precarietà e della fragilità che appartengono alla nostra condizione umana. Non si tratta di coltivare la paura ma, piuttosto, di scoprire nella vita di tutti i giorni d’essere creature che sanno fidarsi di Dio. La fede cristiana si fonda sulla risurrezione che è evento realissimo. Gesù è il Signore della vita il quale ci promette che, oltre a quella terrena, ci donerà la vita per sempre.

Cosa l’ha impressionata sulla scena dell’incidente?

L’immagine dei corpi delle vittime in fila, coperti da teloni. Tra loro due sagome più piccole, lo si intuiva subito: erano i corpi dei bambini. Quei teli contraddistinti da lettere dell’alfabeto non posso cancellarli dalla mia mente. E poi quei bambini...

Ha colpito l’immagine della sua preghiera silenziosa davanti alle salme. Cos’ha chiesto?

Era mia intenzione esser lì a nome di tutti gli uomini e donne di buona volontà. Dinanzi al dramma della morte o si sta in silenzio o si prega e ci si affida al Signore insieme alle vittime, ai feriti, ai familiari e a tutte le persone accomunate in quella tragedia. Lui è e rimane il Signore della vita. Mentre venivano sollevati i teli per l’identificazione delle salme un vigile del fuoco mi ha portato una bottiglia d’acqua dicendo: se le fa piacere... Ho avvertito che la preghiera, nel dolore, unisce e può ispirare gesti di reciproca pietà anche tra i vivi.

Cosa dice a Venezia e all’Italia una tragedia simile?

Ci ricorda che siamo tutti fragili, a rischio e, nello stesso tempo, responsabili gli uni degli altri. Essere uomini vuol dire sentirsi compartecipi della sorte e della vita degli altri. Il bene comune non è un’astrazione ma guardare alla concretezza dei volti delle persone che incontriamo, perché se noi abbiamo dei diritti abbiamo anche doveri e responsabilità che ci uniscono soprattutto nel momento del dolore. Per questo è necessario nutrire un rispetto “sacro” per la nostra vita e per quella di ogni uomo assieme a un sano senso del limite. Sì, proprio il senso del limite e l’umiltà sono, alla fine, la cifra e la garanzia della vera umanità.

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