mercoledì 8 agosto 2012
​La prima rete ufficiale nasce dai reduci dell’Afghanistan, ma presto saranno coinvolti anche militari e familiari delle altre grandi operazioni di questi ultimi anni: dall’Iraq alla Somalia, dal Libano al Kosovo.
Pelvi: «Soldati e cristiani, realtà convergenti»
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​È la prima in Italia. Privata e promossa da coloro che, involontariamente, sono diventati protagonisti della Storia, subendola. Nei giorni scorsi è nata a Ostia l’associazione ufficiale "Caduti di guerra in tempo di pace", in piena collaborazione con lo Stato maggiore della Difesa: riunisce i familiari e gli amici dei militari italiani caduti in Afghanistan. Presto saranno coinvolti anche militari e familiari delle altre missioni di questi ultimi anni: dall’Iraq alla Somalia, dal Libano al Kosovo. L’obiettivo è «non dimenticare» ma anche spiegare alla popolazione cosa vuol dire affrontare un dolore così improvviso per chi non conosce i vari aspetti della missione in Afghanistan. Ma non c’è solo un intento comunicativo. I familiari dei militari caduti vogliono fare rete «soprattutto per non sentirci soli di fronte a questo vuoto».

 

Un vuoto che stanno sperimentando diverse famiglie italiane, pur nella consapevolezza che partecipare a una missione di pace significa anche morire. Gli italiani caduti solo in Afghanistan, ottemperando agli obblighi della missione Isaf, sono 51 dall’inizio della missione stessa, costituita dalla Nato nel 2001. L’ultimo, il carabiniere scelto Manuele Braj, è deceduto il 25 giugno scorso ad Adraskan, nell’Afghanistan occidentale, nel campo di addestramento della polizia afghana. Un’esplosione ha fatto saltare una garitta di osservazione installata vicino la linea di tiro del poligono. Braj, originario della provincia di Lecce, ha lasciato la moglie 28enne, e il figlio di 8 mesi. Insieme a lui sono rimasti feriti alle gambe altri tre carabinieri, poi ricoverati nell’ospedale militare di Shindand. Un destino che si ripete e che Annarita Lo Mastro e Rosa Papagna, madri rispettivamente del caporal maggiore David Tobini, caduto nel 2011 a Bala Murghab, e del caporal maggiore scelto Francesco Saverio Positano, deceduto a Shindand nel 2010, hanno deciso di condividere.«Crediamo nell’unità – dice Annarita Lo Mastro – ma allo stesso modo nel coinvolgimento e, in questo percorso, abbiamo incontrato tante persone che la pensano come noi: l’Afghanistan non può essere solo un problema per 51 famiglie». Rosa Papagna, in quest’associazione, «ci crede» e per questo ha deciso di aderire da subito. «C’è bisogno di continuare ad andare avanti e lo devo fare per me, ma soprattutto per mio figlio». Per fare chiarezza, "Caduti di guerra in tempo di pace" non è un’associazione "pro" o "contro". «Ci poniamo come organo di partecipazione e collaborazione nei confronti dei familiari e non come associazione di protesta contro qualcuno». Tanto più che è formata non solo dai familiari dei caduti ma da professionisti, giornalisti, avvocati, psicologi, commercialisti «che hanno deciso di darci una mano in questa missione, che abbiamo deciso di portare avanti, proprio perché i nostri cari ne hanno lasciata in sospeso un’altra». Da una parte, si tratta di far venir fuori l’umanità dei singoli, di far conoscere effettivamente cosa questi italiani hanno fatto in un altro angolo di mondo: da qui il progetto di realizzare mostre fotografiche, concorsi di giornalismo aperti ai giovani, convegni e incontri sull’attualità, con momenti di riflessione indirizzati alla stampa e ai cittadini. Per affrontare la complessità delle cosiddette missioni di pace senza banalizzazioni. L’obiettivo è concentrarsi sulla diffusione delle notizie da e per l’Afghanistan perché «è il secondo conflitto in cui l’Italia ha versato più sangue» ma i familiari già soci non hanno preclusione alcuna e stanno già inglobando i familiari di vittime di altre missioni o di militi che hanno vissuto l’esposizione a uranio impoverito, rimanendone colpiti in vario modo. Dall’altra parte, l’associazione cerca un supporto per affrontare il dolore.Annarita Lo Mastro lo dice con semplicità, senza polemiche nei confronti né dello Stato né dei ministri, né del comparto delle Forze Armate: «Dopo i funerali di Stato, siamo lasciati ognuno al proprio dramma. Nel senso che la burocrazia italiana è complicatissima, qualche volta nemmeno impeccabile, e spesso non riusciamo a raccapezzarci, ci ritroviamo soli anche ad affrontare percorsi di riabilitazione psicologiche che ci aiutino a metabolizzare e trasformare questo shock in qualcosa di attivo, di positivo». Non a caso, l’associazione cerca anche psicologi volontari che si impegnino a stare a fianco dei familiari nell’elaborazione di questo lutto speciale.Annarita Lo Mastro non si vergogna a dire ad Avvenire che lei è ancora dentro a questo dolore, fino al collo: «Mio figlio David: sono con lui in quella tomba. Passo le giornate nel "giardino di marmo" – così mio figlio chiamava il cimitero –. Mi siedo davanti a quel pezzo di marmo e non ho lacrime. Guardo quella foto e penso che è questo ciò che rimane di un figlio, di mio figlio, di quell’Afghanistan. Un figlio la cui sola certezza era una partenza: parte sano, libero, pieno di vita, e te lo riportano in una scatola di legno, in una busta di plastica nera, ridotto in 100 pezzi da un’autopsia...».Il dolore di Annarita è lo stesso di molti familiari vittime di guerra, da una parte e dall’altra: militari o civili, non ci sono molte parole di fronte a una "body bag", a un destino che arriva in pezzi a spezzarti la speranza in gola. «Non c’è vita, non c’è sole nelle nostre giornate, in famiglia, da quando David non c’è più. Per questo adoro la pioggia perché riflette i miei stati d’animo e non mi fa sentire amputata dentro. Non credo che potremo più sorridere, in futuro, se non a sedici denti».Il luogo della verità, per le 51 famiglie che iniziano a parlarsi per conoscersi meglio e trovare la forza di trasformare il dolore in azione, è l’aeroporto di Ciampino. Al Pontile di Ostia, dove l’associazione ha fatto il suo primo incontro pubblico, c’è memoria soprattutto di quel momento. «Il pensiero – continua la Lo Mastro – va a quell’aereo C130 che, dopo l’atterraggio, fa un mezzo giro su stesso. Si apre il portellone e quel suono di tuono diventa immenso dolore. Poi, scendono loro, i nostri ragazzi. Li chiamano eroi».

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