giovedì 18 marzo 2021
Un anno dopo, Bergamo non è più una comunità spaventata e compatta. E la zona rossa, rispetto al lockdown che fu, sembra il carnevale di Rio
Una colonna di camion dell'esercito trasporta via da Bergamo le bare dei morti per Covid, nella notte del 18 marzo 2020

Una colonna di camion dell'esercito trasporta via da Bergamo le bare dei morti per Covid, nella notte del 18 marzo 2020 - Fotogramma

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Ci sono istantanee che marchiano un’epoca. La foto dei camion dell’esercito che la notte del 18 marzo 2020 portano via da una Bergamo silente e deserta decine di bare è stata però qualcosa di più tremendo. Non solo uno scatto storico, ma la dolorosa icona di una terra sommersa dalla marea del Covid 19. Fu un lampo che apparve sui social e rimbalzò su ogni smartphone, incidendo sui display i contorni della catastrofe in corso.

Il mondo si accorse di Bergamo e capì che lo tsunami stava arrivando. Eppure, dopo aver versato un pugno di lacrime, si preferì volgere lo sguardo altrove, ignorando quel lugubre monito e illudendosi di scansare le ondate. Quella foto ci ha colpito al cuore, ci ha tolto il sonno per qualche ora. Ci ha aperto gli occhi, sì. Ma solo per pochi giorni. Con il passare dei mesi, paura e sofferenza sono evaporate dalla coscienza collettiva, restando appiccicate addosso solo a chi, dentro quei camion, ha visto andar via papà, mamme, parenti, amici. Solidarietà e prudenza hanno lasciato spazio a cinismo e incoscienza. Il virus è tornato un problema altrui, perché "tanto a me non capita". La foto è stata archiviata in fretta dalle nostre memorie, addirittura messa in dubbio dalla subcultura "no mask". Una fake news, ecco cosa sono arrivati a dire i negazionisti, infliggendo l’estremo sfregio a quei poveri morti.

Nell’epoca della post verità, o della verità relativa, la colonna funebre sotto i teloni mimetici non ha lasciato grandi solchi nell’immaginario di una società distratta. A cominciare dalla stessa Bergamo. Dove poco meno di un mese fa, alla vigilia della terza ondata, centinaia di tifosi si sono radunati per salutare il passaggio del pullman della squadra del cuore. Dove la gente, appena ha potuto, non si è fatta scrupolo di affollare le vie del centro storico. Non sono bastati quei camion? Ci si è chiesti in città. No, non sono bastati. Prevale la voglia di vivere, di ritrovare passioni e abitudini. Persino nell’epicentro del contagio, dove tutto ha avuto origine, si preferisce guardare avanti, senza curarsi troppo di quel che è stato. Comprensibile, persino auspicabile. Se non fosse che, un anno dopo, siamo quasi daccapo. Con meno paura, certo, ma anche con più rassegnazione. Non si respira l’aria di morte della primavera scorsa, ma in compenso stiamo scoprendo l’ansia legata ai vaccini, a un traguardo che sembrava a portata e invece si allontana.

Un anno dopo, Bergamo non è più una comunità spaventata e compatta. Ognuno ha ripreso ad andare per conto suo. C’è chi indossa la Ffp2 anche dal panettiere, ma pure chi porta la mascherina fashion ammainata sul mento, magari bivaccando con lo spritz in mano fuori dal bar. Aperitivo da asporto, ecco la nuova moda. Del resto la zona rossa, rispetto al lockdown che fu, sembra il carnevale di Rio. Tanta gente in giro, controlli quasi scomparsi. È la nuova normalità. Chi vivrà, vedrà. Oggi a Bergamo arriverà il premier Mario Draghi. Pianterà un tiglio nel Bosco della memoria, realizzato vicino all’ospedale Papa Giovanni XXIII, vera trincea nella battaglia contro il flagello. Dicono che gli alberi serviranno a ricordare le vittime del Covid. Verrebbe da crederci, se non fosse che le abbiamo già dimenticate una volta.

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