giovedì 9 aprile 2020
La denuncia di "Abiti Puliti": impianti chiusi in India per lo stop degli ordini, licenziamenti di sindacalisti in Myanmar, ordini ancora smistati invece a Stradella (PV) nonostante due contagi
Bangladesh, lavoratrici di uno stabilimento tessile

Bangladesh, lavoratrici di uno stabilimento tessile - Clean Clothes Campaign - Kristof Vadino

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La crisi economica provocata della pandemia globale sta colpendo in modo particolarmente grave i lavoratori tessili dei paesi asiatici delle filiere globali. Operai già costretti in situazioni di vita precarie che hanno in questi ultimi mesi tre successive crisi: blocco delle materie prime dalla Cina, cancellazione degli ordini da Europa e Stati Uniti, chiusura delle fabbriche per l'arrivo dell'epidemia.

A ricordare l’attuale drammatica condizione dei lavoratori che producono abbigliamento per i grandi marchi è Abiti Puliti, membro italiano della Clean Clothes Campaign, che segnala ripercussioni anche nel segmento a valle della filiera, per quei lavoratori che nei magazzini processano gli ordini tuttora in corso: situazione allarmante nel polo logistico di Stradella (Pavia), dove ancora sono smistati gli ordini di H&M acquistati online, con due casi di contagio nonostante i lavoratori da tempo chiedessero la chiusura, denunciando gravi inadempienze nella sicurezza.

A monte della filiera globale, i lavoratori sono stati colpiti da ciascuna delle tre ondate di questa pandemia. La prima si è verificata quando la Cina ha identificato il Covid-19 nella sua popolazione: smettendo di esportare le materie prime necessarie per la produzione di abbigliamento, ha costretto molte fabbriche nel sud e nel sud-est asiatico a chiudere temporaneamente e rimandare a casa i lavoratori, spesso senza preavviso e salari.

La seconda ondata si è abbattuta quando il virus è arrivato in Europa e negli Stati Uniti. Le aziende della moda hanno annullato gli ordini in corso senza pagarli e molte hanno smesso di effettuarne altri. Così le fabbriche dei fornitori, che operano con margini ridotti a causa dei prezzi troppo bassi, sono state costrette ancora una volta a chiudere e mandare i lavoratori a casa senza paga.

L'ultima ondata riguarda la diffusione del virus proprio nei Paesi produttori. Alcuni hanno chiuso gli impianti come misura precauzionale, ma lasciando ancora una volta gli operai senza stipendio. Altri hanno deciso di lasciarli aperti, nonostante il rischio per la salute dei lavoratori in fabbriche affollate.

Spiega Anton Marcus, sottosegretario del Free Trade Zones & General Services Employees Union: «L'impatto del Covid-19 in Sri Lanka è stato immenso. Gli operai sono dovuti tornati nei loro villaggi senza i salari di marzo e non riescono a sostenere le loro famiglie. I datori di lavoro sfruttano questa situazione per licenziare e ridurre benefici dei dipendenti, dando la responsabilità al ritiro degli ordini dei loro clienti».

In alcuni casi questi effetti sono stati esacerbati dalla cattiva gestione della crisi da parte dei governi nazionali. L'India ha improvvisamente annunciato un blocco nazionale, lasciando i lavoratori migranti domestici senza mezzi di sussistenza o di trasporto. Alcuni sono stati costretti a camminare per centinaia di chilometri verso i loro villaggi. In Cambogia e Filippine le misure contro il virus stanno limitando la libertà dei lavoratori di organizzarsi. In Myanmar gli imprenditori hanno usato la pandemia come pretesto per reprimere il sindacato, assicurandosi che i lavoratori sindacalizzati fossero i primi ad essere licenziati.

Due recenti report del Worker Rights Consortium, del Penn State Center for Global Workers’ Rights e della Clean Clothes Campaign hanno acceso i riflettori sui catastrofici effetti del Covid-19 nelle catene di fornitura. L'interconnessione e l’asimmetria di potere delle catene di approvvigionamento hanno permesso ai marchi di scaricare le conseguenze del calo della domanda sui fornitori. Dopo la pubblicazione di questi due documenti, un piccolo numero di marchi ha accettato di adempiere ai propri obblighi contrattuali e di pagare gli ordini che le fabbriche stavano già producendo: H&M, PVH Corp., che possiede Tommy Hilfiger e Calvin Klein, Inditex, proprietario di Zara, e Target.

Per Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti «è fondamentale che i marchi assolvano i loro obblighi contrattuali. Le imprese multinazionali hanno costruito la loro ricchezza sull’uso di milioni di lavoratori sottopagati in paesi dove non sono presenti infrastrutture di protezione sociale. La crisi deve produrre un cambio strutturale del modello di business ». E le istituzioni internazionali che stanno impegnando miliardi di dollari per sostenere le economie dei Paesi produttori - sostiene Abiti Puliti – devono mettere al primo posto anche le esigenze dei lavoratori, con meccanismi che garantiscano che tale sostegno li raggiunga direttamente.

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