giovedì 28 ottobre 2021
Respinta la tesi della difesa che l'assassino fosse incapace di intendere e di volere. Il ricordo del vescovo Cantoni: «Don Roberto, un prete felice di esserlo»
Don Roberto Malgesini

Don Roberto Malgesini - Ansa / Diocesi di Como

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Ergastolo. La condanna è stata pronunciata nel tardo pomeriggio di ieri dalla corte di Assise di Como nei confronti di Ridha Mahmoudi, il tunisino 57enne che il 15 settembre 2020 uccise don Roberto Malgesini. Il processo che ha portato, in primo grado, alla condanna di «fine pena mai» è durato poco più di un mese.

Fin dall’udienza del 22 settembre scorso il pubblico ministero Massimo Astori ha chiesto il carcere a vita per l’uomo che, senza mai mostrare pentimenti, colpì con decine di fendenti don Roberto, il sacerdote degli ultimi, che a Ridha – residente in Italia da trent’anni, ex operaio divenuto senza fissa dimora, uomo con una personalità complessa e aggressiva – aveva sempre assicurato aiuto e vicinanza, forse proprio per quel suo carattere difficile, che lo isolava ulteriormente nella sua marginalità.

Ieri mattina il pm, in due ore di requisitoria articolata, precisa ed equilibrata, ha ricostruito i fatti e tratteggiato la personalità di Mahmoudi, raggiunto, negli ultimi 14 anni, da 6 decreti di espulsione mai attuati.

La storia dell’omicida di don Malgesini è scandita da comportamenti violenti: dai maltrattamenti alla moglie agli atteggiamenti rabbiosi con gli operatori dei Centri di ascolto Caritas, dal rancore rivolto ai colleghi dei lavoretti saltuari agli insulti indirizzati ai medici e agli avvocati, ai quali don Roberto aveva chiesto consulenza per i problemi di salute e di giustizia di Ridha.

La difesa del Mahmoudi, ieri, con l’avvocata Sonia Bova, ha invocato l’assoluzione per incapacità di intendere e di volere, chiedendo anche una perizia psichiatrica. L’istanza è stata, però, rigettata dalla corte, che ha accolto la tesi dell’accusa: omicidio volontario premeditato.

L’assassino ha una personalità forte e il sentimento di odio nei confronti di don Roberto, del prefetto e del questore di Como, degli avvocati che gli stavano fornendo assistenza legale, è maturato nella convinzione di non essere stato aiutato abbastanza. L’ossessione del sentirsi perseguitato lo portò ad acquistare, già due mesi prima dell’omicidio, il coltello da cucina con cui, la mattina del 15 settembre 2020, si sarebbe accanito su don Roberto.

La ricostruzione del pm è straziante: Ridha raggiunse don Malgesini sul piazzale antistante la casa e la chiesa di piazza San Rocco poco prima delle 7 del mattino. Sapeva che lo avrebbe trovato da solo e indifeso, intento a caricare l’auto con cibo e bevande calde per il giro-colazioni fra i senzatetto della città. Dopo averlo colpito con 25 fendenti sferrati in meno di 4 minuti (questa la ricostruzione attraverso le immagini delle telecamere della zona), Mahmoudi si presentò alla caserma dei Carabinieri intimando di aprirgli la porta: «Siete dei traditori – disse –: ho ammazzato il parroco di San Rocco».

La famiglia Malgesini resta chiusa nel proprio dolore nella casa di Regoledo (Sondrio), in Valtellina. Si è costituita parte civile per testimoniare vicinanza al proprio figlio e fratello: «La richiesta di risarcimento non può esistere – riflette l’avvocato che rappresenta i Malgesini, Maurizio Passerini, che di don Roberto ricorda il sorriso che gli è "rimasto nell’anima" –. È solo simbolica, un euro, per testimoniare la sua vita spesa per gli altri e persa per la mano vigliacca di un uomo che, ora, deve fare i conti con la propria coscienza».

La notizia della sentenza ha cominciato a circolare in città e nella diocesi di Como nella serata di ieri. Difficile cogliere commenti, c’è solo la consapevolezza del grande cuore di don Roberto, la cui opera e il cui stile di vicinanza, ai poveri e a chiunque avesse modo di incontrarlo, continuano a vivere attraverso i volontari e le persone che lo hanno conosciuto. Don Roberto è «un prete – ha ricordato il vescovo Oscar Cantoni nel primo anniversario della morte – felice di esserlo, la cui ultima parola è stato il "grazie" sussurrato con un sorriso a chi gli stava prestando soccorso».

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