sabato 17 luglio 2010
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Moby Dick continuerà a muoversi liberamente per i mari del Pianeta, a inabissarsi nelle profondità degli oceani e a fare caroselli attorno alle navi in transito. La cosiddetta balena (termine comune quanto mai generico, in quanto le specie di mammiferi marini sono numerose e diversificate), il Moby Dick sopravvissuto alle grandi retate dei secoli trascorsi non perirà per mano degli epigoni del capitano Achab, non soccomberà davanti all’offensiva della caccia tecnologica che si avvale del sonar, degli scandagli elettronici, del radar e dell’ausilio dei satelliti.No, i rischi con i quali si misura oggi la balena hanno altri nomi, inquinamento delle acque, sversamento di idrocarburi, impoverimento del plancton e degli altri nutritivi, carenza di pesce... Non basta? Mettiamo allora nel conto anche la progressiva antropizzazione delle zone costiere, il rischio crescente di collisione con le navi, l’invasione della navigazione motorizzata negli ultimi santuari dei cetacei.È questo che mette a rischio la sopravvivenza di Moby Dick e dei suoi fratelli giganti del mare, non quelle 1.500-2.000 balene arpionate ogni anno, in alcuni casi per vera necessità alimentare delle popolazioni rivierasche. Tale è la realtà, non riducibile alle posizioni di chi parla di "sporca guerra" alludendo agli scontri che nell’Antartico vedono schierati gli ecologisti e i cacciatori di balene giapponesi. Una lotta – afferma il militante ambientalista neozelandese Peter Bethune – che potrebbe fare morti. Come in tutte le guerre. E questo mentre il Giappone continua a essere additato come il "cattivo", il grande nemico dei cetacei, dopo che meno di un mese fa in sede di Commissione baleniera internazionale (Iwc, organismo che raggruppa 88 Paesi che ha tenuto il suo summit ad Agadir in Marocco) ha dato una robusta mano a far saltare un accordo che avrebbe messo al bando tutti gli Achab del Duemila. O meglio, dopo Agadir la caccia ai cetacei resta vietata (lo è dal 1986), ma al di là del persistere della moratoria per la cosiddetta "caccia commerciale", Paesi come l’Islanda, la Norvegia e soprattutto il Giappone continueranno a mandare in mare le proprie baleniere al di fuori di ogni previsione della commissione. «Non è di questo che c’era bisogno nell’anno internazionale della difesa della biodiversità», hanno prontamente reagito i rappresentanti dell’ecologismo italiano. «Non c’è alcun motivo di preoccupazione», ha replicato a distanza – appena chiusi i lavori di Agadir – la signora Yasue Funayama, viceministro nipponica della Pesca: «Abbiamo le prove che lo stock di balene presenti nei vari mari è sostenibile, a patto che le catture vengano mantenute sotto un certo livello. Quindi non riusciamo a capire perché noi avremmo dovuto ridurle a zero».Morale della favola: caccia vietata, ma contemporaneamente caccia consentita per alcuni Paesi, assodato che trovare intese a livello internazionale sulla base di un consenso generalizzato è sempre più un miraggio. Un esito scontato, dopo che sui lavori avevano proiettato ombre inquietanti le polemiche alimentate dal sospetto di comportamenti spregiudicati messi in atto ancora dal Giappone, velatamente accusato di "comprare" i voti di alcune piccole nazioni a sostegno delle proprie posizioni. Come se il problema della difesa dei cetacei oggi non fosse soprattutto un altro, non riguardasse principalmente la salvaguardia delle acque, la riduzione degli inquinamenti di varia natura, non ultimo quelli derivati dalle prospezioni sottomarine alla ricerca di idrocarburi.Perché di cetacei nei mari del Pianeta ce ne sono ancora, tanti. Anche se è difficile dire quanti, e si procede solo per stime e approssimazioni. Ci sarebbero, stando ai dati della stessa Iwc, almeno 500mila balene Minke, ma il numero è suscettibile di raddoppio. E poi almeno 4mila balene blu, 20-40 mila balenottere, 20-30mila balene grigie, 40-50 mila megattere e forse un milione o più di balene pilota. Sono cifre puramente indicative, sufficienti comunque a consentire di ritenere che il prelievo di uno o due migliaia di capi all’anno non possa comportare esiti catastrofici per la sopravvivenza dei giganti del mare. Che poi alla caccia si voglia imporre uno stop generalizzato per altri motivi, diventa altro discorso.
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