sabato 15 dicembre 2018
Viaggio nella città dei cantieri, dove i casi di mesotelioma sono superiori alle medie nazionali. Eppure al Registro regionale delle persone esposte alla polvere killer, tanti non si iscrivono
Un’operazione di bonifica di un sito contaminato. I Comuni da tempo hanno dichiarato guerra all’amianto (Petyx)

Un’operazione di bonifica di un sito contaminato. I Comuni da tempo hanno dichiarato guerra all’amianto (Petyx)

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«Costruirono le stelle del mare. Li uccise la polvere, li tradì il profitto». La scritta che campeggia sotto al monumento alle vittime dell’amianto, nel quartiere di Panzano a Monfalcone, racconta di una ferita che sanguina. Tanto. Una ferita che fa fatica a guarire. Nella città dei cantieri, la parola amianto continua a fare paura, ancora oggi. «Qui la gente continua a morire » dice Luigino Francovig, lavoratore del cantiere per 22 anni, esposto all’amianto. La lacerazione che tormenta lui e molti altri è forte: «Ci sono oltre 10mila iscritti al Registro regionale delle persone esposte all’amianto. E dietro ai numeri ci sono i volti, le famiglie, che chiedono risposte e vogliono giustizia». I dati del-l’Istituto Superiore di Sanità dicono che, in Italia, in media, si registra un caso di mesotelioma ogni milione di abitanti all’anno. Nella sola provincia di Gorizia (circa 140mila abitanti) si parla di 30-35 nuovi casi all’anno.

Tra le malattie professionali riconosciute, ben il 65 per cento è una malattia amiantocorrelata. A Monfalcone non c’è famiglia che non sia stata ferita dall’amianto: il tema è molto delicato. La realtà che si incontra in città e in regione è davvero complessa e variegata. C’è un piano regionale per l’amianto, ben strutturato. C’è la commissione regionale. C’è la conferenza regionale sull’amianto, convocata ogni due anni, preziosa occasione di confronto. C’è il Centro unico regionale amianto (Crua) con sede a Monfalcone: garantisce consulenze in quattro ospedali (Gorizia, Monfalcone, Latisana e Palmanova), veicola l’iscrizione al Registro regionale delle persone ex esposte. Ciò dà diritto ad un tesserino, emesso dalla direzione regionale della Sanità, che garantisce l’esenzione ticket – no, nessun risarcimento, è bene chiarirlo – per gli accertamenti diagnostici necessari e che va attivato presso gli sportelli di medicina territoriale. In molti però a questo registro non si iscrivono per paura; rientrare in quell’elenco, infatti, viene percepito come una condanna a morte. Tanti, ancora, preferiscono non sapere. La procedura è la seguente: il Crua segnala eventuali diagnosi di malattie asbestocorrelate ad Inail ed autorità giudiziaria, rilascia la certificazione gratuita di invalidità civile in caso di patologie non legate all’amianto e collabora con i patronati per i percorsi previdenziali. Da più parti se ne auspica un potenziamento, affinché diventi un riferimento multispecialistico, ma soprattutto perché possa garantire una sorveglianza sanitaria per gli esposti ed un’assistenza post-operatoria per i malati, attualmente mancante. C’è, ancora, il tavolo permanente sull’amianto del Comune di Monfalcone. Secondo quanto dichiarato dalla sindaca Anna Maria Cisint, la cui famiglia è stata segnata da questa vicenda, «la sofferenza c’è ed è evidente. Il primo impegno è quello di reinserirci nei processi penali come parte civile, partendo da una causa per dichiarazione di nullità della transazione con Fincantieri » che aveva escluso il Comune da successive costituzioni di parte civile nei processi in materia.

«Poi c’è la ricerca che abbiamo scelto di sostenere – continua la sindaca –. Ed infine c’è un dovere di memoria verso chi nei cantieri ha lavorato e ha perso la vita: questo il senso del memoriale che sorgerà nel Museo della cantieristica».

Quanto all’Arpa, che ha il compito di mappare il territorio per individuare i siti contaminati, va detto che al momento la risposta dei Comuni è stata davvero marginale, oltre a rimanere aperta la questione del sito regionale di smaltimento di Porcia, in provincia di Pordenone. Il problema è proprio quello delle necessarie bonifiche, operabili da ditte specializzate, che hanno costi molto elevati. Un fattore, quest’ultimo, che ne rallenta l’esecuzione. A denunciare questa emergenza silenziosa sono soprattutto le associazioni di volontariato. Ce ne sono tante. Si chiamano Aea Amianto mai più, Spyraglio, Auser, Lilt, Eara, Associazione 'Ubaldo Spanghero' ed altre ancora. La loro attività è particolarmente preziosa, soprattutto sul fronte informativo e delle azioni legali, penali e civili, intentate in questi anni.

Ma perché tutto è accaduto proprio qui? Perché la storia terribile dell’amianto è fortemente legata al territorio monfalconese, a sua volta caratterizzato dall’imponente presenza strategica dei cantieri navali, di una centrale elettrica, di una cartiera e del comparto edilizio. Ritenuto l’amianto come il miglior materiale utilizzabile nella coibentazione delle navi, il suo impiego nel passato è stato massiccio nelle sue varie declinazioni. Ciò, unito alle protezioni individuali allora inesistenti, ha provocato – questo l’aspetto sanitario della questione – un’esposizione massiccia dei lavoratori, ma anche, per via indiretta, un’esposizione domestica dei familiari che venivano a contatto con i loro indumenti.

Il terlìs, così viene chiamata da queste parti la tuta da lavoro, entrava infatti nelle case. Con la fibra sempre lì lucente ed indelebile. Ma i suoi effetti sulla salute non si sono visti immediatamente. La latenza del mesotelioma pleurico, infatti, è molto lunga: in media può arrivare fino a 50 anni dall’ultima esposizione. La legge del 1992 mise definitivamente l’amianto fuori legge. Poi c’è stato l’avvento delle fibre artificiali vetrose e delle fibre ceramiche refrattarie, materiali sostitutivi sui quali vi sono alcuni studi scientifici. Ma non vi sono ancora certezze assolute, né su una possibile latenza di eventuali patologie né su una possibile effettiva cancerogenicità. Anche i dispositivi individuali offrono, oggi, una certa protezione ai lavoratori. Purché li si utilizzi come previsto. Fincantieri da parte sua ha dichiarato che «l’abbigliamento dei lavoratori e la dotazione degli idonei dispositivi di protezione individuale è conseguente alle valutazioni di rischio elaborate. A tutti i lavoratori che operano all’interno del cantiere (e quindi anche al personale delle ditte in appalto), sono comunque resi disponibili spogliatoi attrezzati con docce e stipetti», ma rimane il problema enorme di tutte le ditte che lavorano in cantiere in appalto e subappalto.

La medicina del lavoro e le rappresentanze sindacali, ognuno per la propria competenza, effettuano ispezioni e controlli. Denunce per malattie professionali e meccanismi sanzionatori ci sono stati, ma la cultura della prevenzione fa ancora un po’ fatica a decollare. L’Ufficio della pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Gorizia rimarca «la necessità di mettere in luce, insieme all’amianto, anche la malattia sociale provocata dalle condizioni lavorative delle persone». Le iniziative istituzionali 'dal basso' sono davvero numerose. Eppure, la sensazione è che, pur partendo dal medesimo dolore, non si riesca a fare veramente squadra. Forse, ripartire da questa ferita – valorizzando il lavoro già fatto negli anni, superando la diversità di colori politici e prendendo consapevolezza che le morti da amianto continueranno anche nel prossimo futuro – può essere la chiave per creare la giusta coesione sociale in una città che, troppo spesso, si è ritrovata divisa.

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