sabato 26 gennaio 2019
Per effetto del decreto sicurezza, il Viminale blocca il rinnovo delle convenzioni per la gestione dei Cas. Con le nuove regole molti gestori potrebbero non partecipare: «Incertezza per tutti»
È caos sui bandi: penalizzata l'integrazione
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Nuovo diktat del ministro Salvini. Stop alla firma delle convenzioni per il 2019 per la gestione dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria, ndr) prevista dai bandi pluriennali fatti a partire dal 2017. Dovevano durare due anni, col rinnovo della convenzione all’inizio di quest’anno, a metà percorso, ma le prefetture non hanno avuto l’autorizzazione del Viminale.

Bisogna fare nuovi bandi, sulla base del nuovo capitolato, quello che riduce i costi da 35 euro a 21-26, tagliando tutti i servizi all’integrazione. Uno degli obiettivi più volte sbandierati dal ministro. Una strategia partita con lo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto e che ora colpisce i Cas. Uno stop al rinnovo delle convenzioni che non era mai successo.
Un tempo i bandi avevano una durata di un anno, poi sono stati portati a 2-3 anni, per assicurare continuità ai servizi di integrazione, per dare più tempo al percorso verso l’autonomia. Ogni anno doveva essere firmata una nuova convenzione, ma non erano mai sorti problemi. Una procedura voluta dalle prefetture anche perché risolve il problema di rifare ogni anno i bandi per cercare luoghi e enti per accogliere gli immigrati. Così anche quest’anno gli enti gestori dei Cas hanno inviato comunicazioni alle prefetture per conoscere la data per la firma della convenzione. Ma quest’anno è scattato lo stop, come ad esempio ci spiega Simone Andreotti, presidente della cooperativa InMigrazione che insieme a Acisel gestisce un piccolo Cas a Roma, nella zona di Centocelle. La risposta è stata che l’accordo «avrebbe potuto essere firmato solo previa autorizzazione ministeriale» che non c’è stata mentre è arrivato l’invito a «bandire le procedure di gara per l’anno 2019 a nuove condizioni e nuove basi d’asta». Cioè taglio dei 35 euro e dei servizi di integrazione. Per ora si andrà avanti in proroga col vecchio bando fino al 31 marzo ma, sottolinea Andreotti, «ci vorranno mesi prima di predisporre il nuovo bando, fare la gara, esamimare le domande e assegnare i richiedenti asilo. Potremmo addirittura arrivare a settembre, andando avanti con proroghe mensili». Che certo non aiutano i progetti di integrazione. E in questi mesi si continuerebbe ad applicare il vecchio capitolato, quello dei 35 euro. Nessun risparmio, ma l’importante è averlo annunciato, soprattutto in campagna elettorale.
Potrebbe crearsi una grande confusione. Il nuovo capitolato deciso per ridurre i costi, tagliando i servizi, non piace a molti gestori, soprattutto quelli dei piccoli centri o ad accoglienza diffusa. Infatti per questi i costi sarebbero più alti rispetto ai grandi centri che risulterebbero così favoriti, malgrado le assicurazioni del ministro di voler chiudere proprio le grandi strutture. E infatti è uno dei motivi sbandierati per il blitz a Castelnuovo di Porto. Il rischio molto concreto è che molti non presentino domanda e così non si riesca a coprire tutti i posti messi a bando. Aggravando una situazione già carente.
Ad esempio l’ultimo bando della prefettura di Roma è riuscito a coprire solo 5.573 posti su 8.199 necessari. Quello nuovo dovrebbe essere per 6mila posti, visto il calo degli sbarchi. Ma molti gestori potrebbero non partecipare, a Roma come in tutta Italia. Le prefetture saranno così obbligate a una nuova e lunga proroga dei vecchi bandi. Con due conseguenze. Il risparmio sarà molto inferiore all’annunciato. E poi ci troveremo di fronte all’assurdo che gli immigrati ospitati in base al nuovo bando non beneficeranno più dei servizi ma solo di vitto e alloggio, mentre quelli in proroga continueranno ad avere i servizi di integrazione. Un evidente disparità dei diritti, un’accoglienza di "Serie A" e una di "Serie B". Una questione che non riguarda piccoli numeri. Parliamo, infatti, di 1.470 gestori che garantivano nel 2017 53.557 posti, pari al 77% del totale dei gestori e al 32% del totale dei posti: 473 fino a 20 ospiti (il 25%), 611 fino a 50 ospiti (il 32%), 386 fino a 100 ospiti (il 20%). Proprio su questi centri, numerosi e virtuosi, è calata più forte la scure dei tagli imposta dal ministro dell’interno. Tutti i centri, grandi è piccoli, prima partecipavano a bandi che prevedevano 35 euro al giorno per persona. Ora, con le nuove linee guida le cifre cambiano. Per i centri collettivi con 300 ospiti si scende 25,25 euro, con un taglio del 28%. Stessa cifra è stesso taglio per quelli fino a 150 ospiti. Si risale a 26, 35 per i centri da 50 e 20 ospiti, con un taglio del 25%. Pesantemente penalizzata l’accoglienza diffusa in appartamenti, considerata la più efficiente in termini di integrazione. Ebbene questi Cas diffusi scendono a 21,35 euro a persona al giorno con un taglio addirittura del 39%. Con questi tagli diventa molto difficile fornire un adeguato servizio.

ECCO COME SARANNO I TAGLI SUI CENTRI PICCOLI E MEDI, I CAS

Dopo la cura dimagrante degli Sprar, che si stanno svuotando per effetto del decreto sicurezza, ora tocca ai piccoli e medi Cas che potrebbero chiudere per i tagli decisi dal ministro Salvini. Perché i costi non potrebbero più essere sostenibili, ora che si è scesi da 35 euro a 21-26. Secondo un’analisi della cooperativa InMigrazione, i tagli sono stati fatti riducendo soprattutto i costi del personale, e quindi i servizi alla persona e per l’integrazione, e non sono proporzionali. Così tanto più una struttura è grande, e quindi riceve più fondi, tanto più forte è il taglio del personale, in termini di ore, imposto dal nuovo capitolato elaborato dal Viminale.

E quindi in proporzione calano i costi del gestore. I centri collettivi fino a 20 ospiti, col vecchio capitolato (bandi del 2018) prevedevano 180 ore settimanali di personale, con quello nuovo 125, con un calo del 30%. Quelli collettivi fino a 50 ospiti e ad accoglienza diffusa in appartamenti (50 ospiti), dovevano fornire 260 ore settimanali di personale, ora anche loro 125, con un taglio del 52%. I centri collettivi fino a 150 ospiti prevedevano 670 ore settimanali, mentre ora solo 238, con un calo del 64%. Infine i centri collettivi fino a 300 ospiti sono precipitati da 1.398 ore settimanali a 418, con un crollo del 70%. È evidente che questo incide non solo sui costi ma anche sui servizi erogati. A svantaggio dei piccoli centri e dell’accoglienza diffusa. E, infatti, più piccolo è il centro e più i costi del personale incidono sul finanziamento ricevuto. Anche perché tutte le altre voci di spesa sono proporzionali al numero di ospiti e quindi uguali per tutti.

Secondo le nuove linee guida del ministero, il totale del finanziamento annuo per un centro collettivo con 20 ospiti è di 192.355 euro, il costo medio annuo del personale è di 88.642 euro, che incide per il 46% sul totale. Una percentuale che cala al crescere delle dimensioni dei centri. Così quelli in accoglienza diffusa in appartamenti (50 ospiti) e quelli collettivi fino a 50 posti, hanno lo stesso costo per il personale dei più piccoli, cioè 88.642 euro l’anno, ma ricevono rispettivamente 389.637 e 480.887 euro, con un’incidenza dei costi per il personale del 23% e del 18%. Un calo ancor più forte per i centri collettivi fino a 150 e fino a 300 ospiti. I primi ricevono 1.382.437 euro l’anno e ne spendono per il personale appena 168.776, con un’incidenza del 12%. Gli altri incassano 2.764.875 euro ogni anno spendendone per il personale 296.422, pari ad appena l’11%. «Alla luce di quanto descritto – spiegano ancora gli esperti di InMigrazione – e visto che per i centri di piccola e media dimensione viene meno la sostenibilità, con tutta probabilità, ai prossimi bandi coloro che gestivano centri collettivi piccoli e a accoglienza diffusa, potrebbero non partecipare, tagliando di molto la capacità di prima accoglienza, vista anche la chiusura dei Cara, rendendo necessarie proroghe tecniche delle vecchie convenzioni a 35 euro». Un servizio che dunque peggiorerebbe senza neanche raggiungere l’obiettivo, tanto sbandierato dal ministro, del taglio dei costi. Mentre sicuramente si perderebbero tanti posti di lavoro.

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