Nella Nazionale d'Israele giocano anche calciatori arabi. Il pallone unisce
Dopo le polemiche in vista della partita di calcio di Udine, vale la pena ricordare chi fa parte della squadra: ci sono anche atleti musulmani. E da Gerusalemme il Roma Club lancia messaggi di pac

Ciò che su un campo di battaglia divide e indebolisce, su un campo di calcio unisce e fortifica. Così, anche nel sanguinoso conflitto fratricida israeliano-palestinese, è ancora possibile riscontrare quest’altra faccia della medaglia: il fattore pacifico e unitario che rimbalza da un campo di pallone. Nell’ormai spettrale sfida – per l’opinione pubblica – di lunedì prossimo a Udine, la gara di qualificazione ai Mondiali 2026 tra Italia-Israele, molti ignorano un aspetto molto significativo: nella Nazionale israeliana giocano calciatori arabi di fede musulmana. Il Ct d’Israele, Ran Ben Shimon, non ha mai rinunciato ad Abu Fani, centrocampista 26enne nato e cresciuto a Kafr Qara, villaggio a maggioranza araba. E la Federazione israeliana non li fa giocare, come vogliono i tanti bastian contrari, per mero spirito di inclusione o di finta democrazia.
Il calcio è sicuramente lo sport più democratico che esista e nella Nazionale di Israele lo conferma che, oltre ad Abu Fani, trovano spazio anche l’altro centrocampista Mamoud Jaber, 25 anni, di Tayibe, altra città a maggioranza araba e il forte attaccante dei belgi della Royale Union Saint-Gilloise Anan Khalaili: classe 2004, nato a Haifa da una famiglia originaria di Sakhnin, città della Galilea, popolata per lo più da arabi. Dalla Galilea occidentale, dal villaggio di Majd al-Krum proviene il “dissidente ” Ataa Jaber, 30enne centrocampista originario di Majd al-Krum. Jaber dieci anni fa era il capitano dell’Under 21 di Israele, ma a un certo punto, per ragioni ideologiche e di appartenenza, decise di rispondere alla convocazione della nazionale della Palestina.
Da quel momento è diventato un “nemico” di Israele e per continuare ad essere un calciatore professionista è finito a giocare a Doha, ora milita nel Qatar SC. Ma anche il “caso Jaber”, non può diventare il pretesto per aprire dibattiti e petizioni popolari sull’opportunità di disputare o meno Italia-Israele o ancor peggio per invitare il mondo intero a boicottare lo sport israeliano chiedendo di vietare ai suoi atleti di partecipare alle competizioni internazionali. Da Gerusalemme il messaggio di uno sport che sia «strumento di condivisione, inclusione e soprattutto di pace», lo invia Samuele Giannetti, vicepresidente del Roma Club Gerusalemme. Il vicepresidente, con il presidente Fabio Sonnino, dal 1998, anno di fondazione di questa onlus di tifosi giallorossi, sono i principali animatori di una realtà singolare che ha sede nel circolo del quartiere di Rehavia. Da lì, Giannetti ci tiene a dire la sua su Italia-Israele. «Io credo che lo sport è essenzialmente incontro, quindi non capisco chi parla di far saltare questa partita di Udine e ancora meno comprendo le ragioni di chi invoca il “boicottaggio” dello sport israeliano. È stato fatto per la Russia? E hanno sbagliato, perché hanno punito soltanto gli atleti russi e non i politici e gli oligarchi di Mosca. Chi pensa allo sport come a una questione politica pensa male. L’ignoranza, assai diffusa e che genera solamente paura, sta dando una descrizione estremamente distorta di quella che è la vera realtà israeliana, la quale non è assolutamente a favore della guerra. Posso assicurare che qui tutti noi ogni giorno viviamo desiderando che torni la pace il più presto possibile».
Quel “noi” sta per i dirigenti, gli istruttori, gli allenatori e i circa 400 ragazzi della Scuola Calcio Roma Club Gerusalemme, «la terza più importante Academy della città», sottolineano con orgoglio, nata nel 2008 con uno scopo ben preciso: «Accogliere e far giocare a calcio tutti quegli adolescenti ebrei, cristiani e musulmani… che convivono pacificamente sotto lo stesso cielo di Gerusalemme – continua Giannetti - . Lo scorso maggio a Roma abbiamo partecipato a un torneo internazionale con i nostri allievi classe 2011-2012. Dei 32 ragazzini della rosa 14 erano ebrei israeliani, 4 arabi israeliani, 4 arabi palestinesi, 3 arabi cristiani, 3 armeni, 2 drusi, 2 profughi israeliani sfollati dal nord di Israele. E attenzione quando si parla di “profughi” vuol dire israeliani e palestinesi che da nord a sud sono sfollati e ora vivono rifugiati qui a Gerusalemme. Per il loro sostentamento abbiamo raccolto delle collette e alcuni dei figli di questi profughi sono entrati nella nostra scuola calcio». Una scuola dove prima della tattica si insegna il rispetto, non solo il classico fairplay verso l’avversario, ma per tutti. «Noi siamo Scuola – spiega Giannetti - e li educhiamo con il calcio ma anche insegnandogli i veri valori dello sport che poi sono anche i valori più autentici nella vita quotidiana. In un momento storico come questo ai nostri ragazzi prima di iniziare l’allenamento insegniamo anche a sopravvivere sotto un bombardamento missilistico: se scatta l’allarme, sanno che devono correre al rifugio, nel bunker che dista 30 metri dal campo. Cessato il pericolo, si torna a giocare. La nostra è l’unica società calcistica di Gerusalemme che dopo il 7 ottobre (2023) e il tragico attacco di Hamas, sette giorni dopo aveva già ripreso l’attività sportiva. E di questo i più grati sono stati i genitori dei ragazzi arabi, che, ieri come oggi, ci dicono ringraziandoci di cuore che i loro figli nella nostra scuola calcio hanno trovato la loro seconda casa. E per qualcuno, ora, la Roma Club Gerusalemme è diventata anche la casa che non hanno più».
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