L'Italia delle aree interne sta diventando un deserto: «Serve una strategia»

Persi in 10 anni 700mila abitanti. Il governo ha un piano e tanti fondi. L'arcivescovo Accrocca: «Le grandi opere nei paesini però non arrivano mai. E occorre fermare la fuga dei giovani»
July 11, 2025
L'Italia delle aree interne sta diventando un deserto: «Serve una strategia»
. | Il centro di un vecchio borgo nel Centro Italia
Sono più di 13 milioni gli italiani (su un totale di 59 milioni) che vivono nelle “aree interne”, cioè lontano da ospedali, stazioni, scuole e altri servizi essenziali. Zone prevalentemente montane, dalle Alpi agli Appennini, ma non solo: molti comuni periferici e “ultraperiferici” (come sono classificati i più remoti, sulla base della loro distanza da un centro urbano) sono infatti localizzati nelle isole minori, quelle che d’inverno diventano impossibili da raggiungere se il mare si fa grosso, oppure anche in territori costieri, come il Delta del Po. Un’Italia minore, poco raccontata dalle cronache e distante dalle metropoli - non solo in senso geografico-, che resiste come può. Sempre più faticosamente, alle prese con uno spopolamento costante che da molti è considerato inesorabile. Le cifre, in effetti, non inducono all’ottimismo: in 10 anni le aree interne hanno perso quasi 700mila abitanti. Non solo. Secondo i dati Istat, entro un decennio l’82% dei Comuni di questi territori sarà catalogato in “declino demografico”, con punte che arriveranno al 92,6% nel Mezzogiorno.
Una tendenza negativa difficile da rallentare, e forse impossibile da invertire. Ma il governo, con il nuovo piano approvato a marzo, che attua (e aggiorna) la Strategia nazionale per le aree interne 2021-2027, ci vuole almeno provare. Per raggiungere l’obiettivo sono stati messi sul tavolo 359 milioni, cui si aggiungono altre risorse provenienti da Regioni e Fondi europei. Oltre alle 72 aree identificate dal precedente piano 2014-2020 (ora scese a 67) se ne sono aggiunte altre 43 (più 13 individuate dalle Regioni). La Strategia, nell’intento dell’esecutivo, dovrà essere “uno strumento cruciale”, in grado di promuovere la crescita sociale ed economica, possibilmente tramite la valorizzazione delle risorse locali, “per creare opportunità di sviluppo”. Nello specifico, “è fondamentale assicurare una crescita sostenibile a lungo termine, promuovere l’inclusione sociale e accompagnare i territori con riforme strutturali e il potenziamento della capacità amministrativa. Gli interventi devono consentire ai cittadini di restare nelle loro comunità, migliorando al contempo la qualità della vita e le condizioni socio-economiche locali”.
Ma il “diritto di restare” (e magari di tornare) si attua assicurando in primis opportunità lavorative, da alimentare tramite l’innovazione tecnologica, il miglioramento delle infrastrutture e dei trasporti pubblici, il mantenimento (e se possibile l’aumento) dei servizi primari. Se chiudono scuole, negozi e uffici postali, è difficile immaginare che le famiglie rimangano nei piccoli borghi, e tantomeno che vi si trasferiscano. Guai però pensare che tutte le aree interne siano uguali: ognuna ha le sue specificità, e su queste bisogna declinare necessariamente la Strategia. Un approccio “tailor made”, sottolinea il documento, fondato sulle “necessità concrete” di ciascuna territorio. Se non si seguirà questa filosofia, se i soldi saranno spesi male, lo spopolamento avanzerà in modo irreversibile, in un quadro nazionale (ed europeo) già pericolosamente avviato su un piano inclinato.
Si prevede infatti che l’Italia, dopo il picco di 60,3 milioni di abitanti registrato nel 2014, scenderà sotto i 55 milioni nel 2050 e sprofonderà a quota 46 nel 2080. Sono soltanto stime, tuttavia preoccupanti, che forse nemmeno l’immigrazione consentirà di contenere e correggere: il piano presentato dal governo le recepisce con crudo disincanto, quasi con fatalismo.
Perché se è vero che “nessun Comune ha di fronte un destino ineluttabile in relazione alle coordinate geografiche in cui si trova”, sono però “molti i Comuni che rischiano un percorso di marginalizzazione irreversibile per le dinamiche demografiche che li caratterizzano”. In termini ancora più espliciti, alcune aree “non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita”. Una visione pessimistica, per usare un eufemismo, che ha suscitato numerose reazioni sdegnate non solo da parte dell’opposizione, ma anche dagli enti locali interessati. Il ministro per la coesione Tommaso Foti ha ribattuto che «bisogna leggere le 196 pagine del piano, e non solo tre righe», poi ha garantito l’impegno suo e dell’esecutivo per garantire un futuro ai borghi.
Polemiche a parte, uno spiraglio viene dai dati resi pubblici dall’Uncem, l’unione dei comuni montani, secondo cui sono in aumento gli italiani che vanno a vivere in montagna. Dal 2019 al 2023 almeno 100 mila persone hanno lasciato le città, complice anche l’effetto pandemia, per traslocare sotto le cime. Un processo da sostenere, e se possibile da incoraggiare. Altrimenti l’Italia si riempirà di villaggi fantasma.

L'arcivescovo Accrocca: «Giovani in fuga, servono prospettive. E che la politica agisca subito»

«Per le aree interne c’è bisogno di una strategia di lungo periodo. Cosa di cui la politica, abituata a cambiare opinione al mutare dei sondaggi, è per definizione incapace». Monsignor Felice Accrocca, arcivescovo di Benevento, va dritto al punto. Non è una polemica la sua, ma un giudizio basato sull’esperienza dell’uomo di fede che vive e opera nell’altra Italia, quella lontana da tutto e spesso da tutti. Da 5 anni Accrocca organizza l’incontro dei vescovi delle diocesi dei territori “marginali” della Penisola (quest’anno si terrà a fine agosto): un momento per affrontare i problemi ma anche, come dice lui, per riflettere sulle «tante potenzialità» celate anche nei borghi più remoti. «Tra le grandi risorse delle aree interne ci sono le relazioni umane, che non figurano in nessun rapporto statistico - sottolinea l’arcivescovo -. Prendiamo un anziano che sta al decimo piano di un grattacielo di Milano: forse si sente più solo di un coetaneo che vive in un paesino sui monti. I ritmi sono più lenti, si gode del contatto con la natura. La qualità della vita è molto diversa. Però occorre sostenere queste realtà con progetti seri e declinati sulle loro specificità: Benevento è diversa dal Trentino».
L'arcivescovo di Benevento Felice Accrocca - .
L'arcivescovo di Benevento Felice Accrocca - .
Ogni territorio andrebbe visto e studiato da vicino. Ma la miopia è un difetto antico della politica italiana.
Un piano di sviluppo efficace dovrebbe essere per forza di cose a lunga scadenza. Ma proprio per questo la questione non si è mai affrontata con serietà: chi governa teme sempre di lasciare i frutti a chi verrà dopo di lui. Non trovo la capacità di agire secondo tempi che non siano quelli dei consensi immediati. Come può esserci una strategia in queste condizioni?
Quali dovrebbero essere le leve su cui agire per invertire o almeno frenare il declino demografico?
Credo che una delle prime cose da fare sia introdurre una tassazione agevolata: non si può equiparare un bar di montagna, che fa 20 caffè in un giorno, a uno che sta a Milano davanti alla fermata della metro, e che alle otto del mattino ne ha già serviti 2 mila. E poi bisognerebbe rivedere i criteri di ripartizione delle risorse, che ora si basano sul numero di abitanti. Più persone, più risorse. Ma i piccoli centri, avendo meno abitanti, ricevono meno soldi. E però ad esempio hanno più chilometri da asfaltare, su terreni spesso impervi. E questo si riflette inevitabilmente sui costi. Ma c’è anche un altro aspetto che bisogna avere il coraggio di affrontare.
Prego, parliamone.
Quando si iniziano le grandi opere si parte sempre dai grandi centri urbani per poi spingersi nelle aree più interne. Ma alla fine nei paesini non si giunge quasi mai, se va bene si arriva a metà. Allora io dico che è meglio partire dal paesino, così alla metropoli si arriverà di sicuro. Bisogna rovesciare la piramide. Per fare questo però c’è bisogno di una politica forte, che si imponga sui potentati e gli interessi di parte. Questo vale per le strade, ma anche per le reti digitali e le altre infrastrutture
Quale ruolo può giocare la Chiesa nel rilancio di queste zone?
La Chiesa è una delle poche agenzie educative che ancora mantiene una presenza capillare sul territorio. Ed è in grado contribuire alla costruzione di strutture e connessioni umane, che sono di importanza fondamentale. Come vescovi stiamo ragionando su una pastorale idonea: a volte i modelli nazionali sono pensati più per le realtà urbane. Invece, ad esempio, si può pensare di valorizzare la dinamica della religiosità popolare, legata al culto dei santi e delle tradizioni sacre. E’ un elemento da cui partire, che in città non è presente, anche se è necessario discernere perché non tutto è in sintonia con la logica di fede. Vale per il Centro Sud, ma anche per molte zone del Nord. A questo si può affiancare il tema del turismo lento e dei pellegrinaggi: i cammini stanno prendendo sempre più piede. Dobbiamo agevolare e incoraggiare questo processo, che può essere un fattore di sviluppo. A patto che si superi la tentazione del campanile: è necessario fare squadra. E penso in particolare alla questione dei giovani.
Dovrebbero essere i protagonisti, e invece spesso diventano i grandi esclusi.
Non si può più pensare di fare pastorale giovanile in ogni paesino, perché i numeri sono troppo piccoli e le forze sono quelle che sono. Quindi conviene accettare che dei ragazzi magari si occupi un altro sacerdote, nel quadro di un’azione complessiva di decanato. I giovani sono il grande tema: c’è in loro una tentazione di fuga, troppi partono per laurearsi e non tornano più indietro. Per tenerli sul territorio dobbiamo dargli prospettive serie. E non è solo un problema di lavoro, ma di un modello culturale che spinge verso l’urbanizzazione, favorito da politica e finanza. Perché poi la popolazione di città fatica a diventare comunità autentica, e di conseguenza si rivela più malleabile, oserei dire manipolabile. Questo non accade nei piccoli paesi, dove le relazioni sono forti, ci si conosce e ci si aiuta di più. Sono convinto che ci sarà un ritorno ai borghi, molti se ne stanno già andando dalle città. Per questo è inaccettabile che la politica pensi di abbandonare alcune aree interne al loro destino.

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