Il suicidio assistito di Laura Santi, il significato della parola “cura”
La giornalista di Perugia era affetta da sclerosi multipla. L'Associazione Coscioni ha pubblicato una sua lettera integrale: «Siamo noi e solo noi a dover scegliere sulla nostra vita»

È morta ieri, nella sua casa di Perugia, la giornalista Laura Santi, 50 anni, affetta da una forma avanzata e progressiva di sclerosi multipla. La sua vita si è conclusa con l’autosomministrazione di un farmaco letale, reso disponibile dalla sua azienda sanitaria dopo un lungo iter giudiziario durato oltre due anni e mezzo. Al suo fianco, fino all’ultimo istante, il marito Stefano.
A darne l’annuncio è stata l’Associazione Luca Coscioni, che ha accompagnato e sostenuto Santi (come già avvenuto per altri casi) nel percorso per ottenere l’accesso al suicidio medicalmente assistito, nei termini stabiliti dalla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale. L’Associazione ha pubblicato anche una lunga lettera di commiato scritta dalla giornalista (anche questo fa parte delle modalità con cui i radicali danno notizia di queste vicende), nella quale spiega le ragioni della sua scelta, le sofferenze fisiche e psicologiche vissute, il desiderio di «non aggiungere dolore al dolore». Una storia toccante, che tuttavia diventa subito strumento di pressione politica, proprio nel momento in cui il tema del fine vita è tornato ad accendersi nel dibattito pubblico col disegno di legge sotto la lente del Senato. Non a caso nella stessa lettera la giornalista denuncia «l'incompetenza della politica» e «l'ingerenza cronica del Vaticano», parlando dello stesso disegno di legge come «un colpo di mano che annullerebbe tutti i diritti».
In Italia il suicidio assistito resta formalmente un reato, che la Corte costituzionale ha dichiarato non punibile solo in casi eccezionali e ben delimitati, quando vi siano condizioni precise: capacità piena del paziente, patologia irreversibile, sofferenze intollerabili, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Non si tratta di un diritto generalizzato, né di un servizio sanitario obbligatorio. Nel caso di Laura Santi si è arrivati all'esito in cui la struttura pubblica ha fornito farmaco e strumentazione, mentre personale sanitario si è attivato su base volontaria per assistere alla procedura. Una situazione che, pur nel rispetto delle norme, solleva domande profonde su che tipo di medicina vogliamo costruire, e su quale sia il confine tra cura e abbandono, tra pietà e legittimazione della morte.
Nelle ultime settimane, proprio a partire dal dibattito politico sul disegno di legge proposto dalla maggioranza e sulla scia delle polemiche legate alle leggi regionali (in primis quella della Toscana), Avvenire ha proposto diversi contributi sul tema delle cure palliative e su quale dovrebbe essere il compito del Servizio sanitario nazionale. Chi soffre ha bisogno di cura, non di scorciatoie, ripetono i palliativisti, e la vera sfida della medicina contemporanea non è quella di accorciare la vita, ma di accompagnarla fino alla fine con dignità e senza accanimento. A partire dalla certezza che cura vera, prossimità reale e reti di assistenza palliativa degne di questo nome sono gli unici strumenti in grado di lenire la sofferenza e la solitudine del malato. E che il dolore, per quanto devastante, non può diventare il criterio per stabilire chi debba vivere e chi no.
© RIPRODUZIONE RISERVATA






