Cambiamento climatico, avanti in ordine sparso. E l'inazione pesa
L'Europa è divisa e adesso il Consiglio ambiente straordinario del 4 novembre dovrà decidere sugli obiettivi Ue. Si accende intanto lo scontro sulla "flessibilità"

A Bruxelles doveva essere il vertice delle decisioni, ma il Consiglio Europeo “delle scelte”, si è chiuso con un nulla di fatto sulla sostenibilità ambientale. Mentre il costo dell’inazione è sempre più alto, i leader europei restano divisi sul futuro del Green Deal e sull’identità climatica dell’Unione: a pochi giorni dalla Cop30 di Belém, in Brasile, tutto è rimandato al Consiglio ambiente straordinario del 4 novembre. È lì che si deciderà se l’Europa intende ancora guidare la transizione o se preferisce rinviare, e con ogni rinvio accettare un prezzo ambientale crescente. La proposta della Commissione di un taglio del 90% delle emissioni al 2040 resta la base del negoziato, ma le linee di faglia sono ormai consolidate. Varsavia guida il fronte del freno, con Roma e Berlino schierate per una maggiore gradualità. In mezzo, i Paesi “pragmatici” – Italia, Francia, Germania – che chiedono margini di adattamento per non sacrificare competitività e occupazione; dall’altra parte, le nazioni “fedeli alla transizione” – Scandinavia, Spagna, Irlanda – che difendono l’obiettivo originario.
Roma punta a uno “sconto” del 5% sul taglio delle emissioni, presentandolo come correttivo realistico. Ursula von der Leyen, che oggi parla con toni più prudenti, ha ribadito: «È importante restare fermi sull’obiettivo climatico del 2040, ma anche flessibili, pragmatici e adattabili». Dietro la cautela delle parole si intravede però una metamorfosi politica: l’Unione, un tempo laboratorio della transizione verde, ora ridisegna i confini del Green Deal in chiave industriale. L’ultima svolta riguarda l’automotive. La revisione dello stop alle nuove auto a benzina e diesel dal 2035 sarà anticipata a fine anno: accanto agli e-fuel tedeschi entrano i biofuel italiani. L’elettrico resta la via maestra, ma l’Europa accetta di rallentare.
Intanto, il conto dell’inazione cresce a ritmi vertiginosi. Negli Stati Uniti, i primi sei mesi del 2025 – certifica il centro scientifico indipendente Climate Central – sono stati i più disastrosi mai registrati. Quattordici eventi estremi, ciascuno con danni superiori al miliardo di dollari, per un totale di 101 miliardi. Tempeste, alluvioni, ondate di calore e incendi hanno colpito venticinque Stati, lasciando dietro di sé un paesaggio di rovine. L’incendio di Los Angeles, il più devastante nella storia della California, ha causato da solo perdite per 61 miliardi di dollari, distrutto oltre 16 mila edifici e costretto 300 mila persone all’evacuazione. Secondo gli scienziati di Climate Central, l’estate 2025 ha battuto ogni record di temperatura media, con un aumento di 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Negli Stati Uniti, oltre 200 milioni di persone hanno vissuto almeno una settimana di “heat stress” estremo; in Texas e Arizona, il lavoro all’aperto si è ridotto fino al 30% per il rischio di collasso fisico. Il costo economico complessivo delle interruzioni lavorative e dei danni sanitari legati al caldo è stimato in 20 miliardi di dollari solo tra giugno e agosto.
Eppure, mentre i dati mostrano la portata del disastro, l’amministrazione Trump ha deciso di sospendere la raccolta e la pubblicazione dei dati ufficiali del Noaa, l’agenzia federale che monitora l’impatto economico degli eventi climatici. Un blackout informativo che nasconde, ma non cancella, la realtà: quella di un’economia che paga ogni giorno il prezzo dell’inazione.
Anche in Europa i numeri sono eloquenti. La Commissione stima che la mancata o insufficiente attuazione delle politiche ambientali costi 180 miliardi di euro l’anno, pari all’1% del Pil dell’Unione. È un peso invisibile ma costante, che grava su sanità, infrastrutture e produttività. Alcuni costi si vedono subito, altri no. Agiscono in silenzio, erodendo il potere d’acquisto delle famiglie e la solidità delle imprese. Uno studio dell’Università della California a Berkeley per il centro Next 10 calcola che un americano nato nel 2024 affronterà fino a 500mila dollari di costi aggiuntivi nel corso della vita a causa del cambiamento climatico: bollette più alte, giornate di lavoro perse, premi assicurativi in crescita, spese mediche maggiori. Per chi vive nelle aree più esposte, il conto può arrivare al milione. In California, dove incendi e ondate di calore aggravano la crisi dell’accessibilità economica, il costo della vita è ormai una variabile climatica.
Anche le imprese cominciano a fare i conti. Secondo il report The Cost of Inaction di Boston Consulting Group e World Economic Forum, le aziende che ignorano i rischi climatici perderanno fino al 25% dei profitti entro il 2050. Crescono intanto le aree “uninsurable”, dove le compagnie non offrono più coperture, bloccando investimenti e facendo crollare il valore degli immobili. A livello globale, servirebbe investire ogni anno circa il 3% del Pil mondiale per restare sotto i 2 gradi di riscaldamento. Non farlo significherebbe affrontare perdite dieci volte superiori entro fine secolo. È un paradosso economico prima ancora che politico: la scelta più costosa, ormai, è non scegliere.
Il 4 novembre, al Consiglio straordinario sul clima, l’Europa dovrà decidere se restare motore della transizione. Ogni rinvio ha un prezzo – in disastri naturali, in fiducia, in futuro. L’inazione climatica non è più un vuoto politico, ma una tassa quotidiana, mentre l’Europa discute ancora del proprio passo.
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