Accoglienza diffusa: Saluzzo capolinea della fuga dei profughi eritrei

La storia della famiglia eritrea arrivata in Italia lo scorso 27 febbraio attraverso il corridoio umanitario aperto in Etiopia dalla Cei
May 1, 2018
Accoglienza diffusa: Saluzzo capolinea della fuga dei profughi eritrei
L’arrivo in città. Era la prima volta che la famiglia vedeva la neve
Il vecchio casello ferroviario alla periferia di Saluzzo di viaggi ne ha visti tanti. Oggi ospita una famiglia in fuga. Sono quattro profughi eritrei arrivati in Italia lo scorso 27 febbraio attraverso il corridoio umanitario aperto in Etiopia dalla Cei con il governo per un anno con la collaborazione di Caritas italiana e Sant’Egidio. Saluzzo da anni accoglie rifugiati e richiedenti asilo da maggio a novembre a lavorare a giornata nei frutteti e la Caritas è sempre stata in prima linea per affrontare l’emergenza. Perciò ha accettato la sfida di accoglienza diffusa lanciata dal programma 'Rifugiato a casa mia'.
Per dare il benvenuto ai profughi eritrei nell’ex casello il direttore don Beppe Dalmasso ha deciso di appendere in sala un quadro della Sacra famiglia apprezzato dai quattro, cristiani ortodossi. Possiamo allora rinominare per ragioni di sicurezza i genitori Giuseppe e Maria, 57 e 56 anni, mentre i due figli di 18 e 23 anni sono Elena e Alex. In pochi mesi hanno innescato un volano, un’accoglienza davvero diffusa. La scelta del nucleo è stata caldeggiata dall’Ong Gandhi per la sua particolare vulnerabilità. Erano infatti nel mirino delle spie del regime di Isaias Afewerki e sono dovuti fuggire dal Sudan e poi dall’Etiopia. Giuseppe, il padre, ha combattuto per l’indipendenza del suo Paese dall’Etiopia di Menghistu da quando era un bambino fino al 1992 nel fronte popolare guidato dell’attuale tiranno. Invalido per una ferita di guerra alla gamba, quando il regime appena insediato ha tradito le promesse, non lo ha pagato e lo ha mandato a lavorare senza paga in un ministero, è sceso in piazza con molti altri mutilati e veterani di guerra. Sopravvissuto a una spietata repressione, ha fatto anni di galera dura.
«Lì ho cominciato a progettare la fuga per evitare ai miei due figli il servizio militare a vita». Maria è d’accordo, ha già sofferto troppo. Anche lei è stata torturata in patria e ha perso il primo marito nella guerra per l’indipendenza e poi due figli di primo letto. Il primo nella guerra con l’Etiopia del 1998 e il secondo in carccre dove era finito perché cristiano pentecostale, un reato nel piccolo Paese del Corno. Così nel 2011 i quattro scappano pagando un trafficante a Kassala, in Sudan e da lì vanno a Khartoum con l’Italia nel radar. I ragazzi riprendono gli studi, ma dopo un anno devono rifugiarsi nell’ambasciata etiopica e chiedere asilo per sfuggire i sicari dell’Asmara. Ma l’insicurezza li segue anche ad Addis Abeba. I corridoi sono l’occasione per lasciarsi alle spalle una vita da senza patria. «In Italia – spiega Alex, che ha frequentato tre anni di farmacia in Etiopia e aspetta di sapere se può iscriversi alla facoltà a Torino – in due mesi la nostra vita è cambiata». Ride.
«Siamo arrivati con la neve che non avevamo mai visto». «I due figli seguono le lezioni in una quinta superiore – racconta Virginia Sabbatini, giovane responsabile del progetto Caritas Saluzzo migrante –, all’istituto Denina, in una sezione di ragioneria che li ha accolti con grande disponibilità. Non faranno ovviamente la maturità. Stanno imparando l’italiano grazie a tanti volontari» Al Denina l’integrazione non è una novità per la presenza di figli di albanesi, romeni e cinesi. «Siamo riusciti – prosegue Virginia – a innescare un’esperienza solidale con persone che non conoscevamo».
A scuola di italiano gli eritrei accolti a Saluzzo
A scuola di italiano gli eritrei accolti a Saluzzo
Almeno 10 docenti hanno risposto alla richiesta della professoressa Paola Maggi di insegnare italiano ai due neo allievi. «C’è chi ha messo a disposizione l’ora libera – spiega la professoressa di scienze Emanuela Toma – e chi invece li aiuterà quest’estate». Per il professor Carlo Depetris il dono è reciproco. «Sono istruiti e con i loro racconti anche noi stiamo imparando». Al pomeriggio oltre ai corsi di italiano, i due ragazzi fanno volontariato con gli scout e la Caritas. Anche papà e mamma frequentano corsi professionali e di lingua. Niente tutor, la Caritas vuole che il territorio li segua. Al loro mantenimento provvedono sì i fondi dell’otto per mille, ma anche associazioni che hanno raccolto offerte per farli studiare. Elena il prossimo anno vorrebbe diplomarsi e poi iscriversi all’università. «Vorrei studiare fisica – spiega – e trovare un lavoro per ripagare i miei di tante sofferenze». Fratello e sorella non hanno rinunciato a tornare in Eritrea quando tornerà libera. È il sogno di loro padre, nato all’Asmara nel quartiere Alfa Romeo, il quale spera che dall’Italia, nazione per lui sorella, possa partire il viaggio di ritorno dal lungo esilio.

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