mercoledì 22 settembre 2021
La direttrice del programma di salute globale della Society for international development osserva: nella lotta alla pandemia abbiamo lasciato indietro così tante persone
Una donna indiana viene vaccinata con una dose di Covaxin, prodotto dalla Bharat Biotech

Una donna indiana viene vaccinata con una dose di Covaxin, prodotto dalla Bharat Biotech - Reuters

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«No one left behind, non lasciamo nessuno indietro. Lo abbiamo sentito dire e ridire troppe volte nell’ultimo anno e mezzo. In realtà, però, non c’è mai stato un tempo in cui, rispetto alle possibilità sanitarie, abbiamo lasciato indietro così tante persone».

È una constatazione amara quella di Nicoletta Dentico, direttrice del programma di salute globale della Society for international development e autrice tra gli altri di Ricchi e buoni (Emi) e Geopolitica della salute (Rubbettino). Supportata, però, dai fatti. Fatti misurabili. Secondo il sistema realizzato dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per monitorare l’approvvigionamento di vaccini da parte dei differenti Paesi, Canada, Australia, Usa, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Ue, hanno scorte sufficienti per immunizzare tra il 200 e il 400 per cento della propria popolazione, cioè per vaccinare tutti tra le due e le quattro volte. Alla luce di questo dato non è difficile comprendere perché il Nord ricco del mondo – dove risiedono il 16 per cento degli abitanti – sia vicino a raggiungere la famosa immunità di comunità. Il Sud geopolitico forse arriverà a quota 60 per cento entro la fine del 2023. La politica della “terza dose” ora rischia di amplificare ulteriormente lo squilibrio.

Nicoletta Dentico, direttrice del programma di salute globale della Society for international development

Nicoletta Dentico, direttrice del programma di salute globale della Society for international development - Archivio Dentico

Per quale ragione?
Più che di squilibrio, parlerei di «apartheid vaccinale», espressione impiegata dall’Oms. E il divario si va ampliando giorno dopo giorno. Ci sono Paesi – come l’Etiopia, il Burkina Faso o il Ghana – che non sono ancora riusciti a mettere in sicurezza il personale sanitario. Addirittura l’alleanza solidale Covax ha dovuto ridurre del 25 per cento la previsione di distribuire due miliardi di dosi entro l’anno. In questo contesto, parlare di “terza dose” suona assurdo: la stessa Oms ha chiesto una moratoria fino alla fine dell’anno in modo da consentire alle nazioni più povere di vaccinare il 40 per cento dei cittadini. In primo luogo, è ancora oggetto di dibattito se sia necessaria e quando. La mancata immunizzazione di gran parte del globo, inoltre, è la causa del moltiplicarsi delle varianti. Alla questione etica, si somma, dunque, quella sanitaria.

Due giorni fa, in un editoriale, il Guardian ha lanciato l’appello a condividere subito i vaccini con il Sud del mondo. Si muove qualcosa in tale direzione?
Con molto rilento. Fino a giugno, gli Stati Uniti hanno dato chiara priorità alla tutela dei propri cittadini. Poi c’è stata la promessa al G7 di donare mezzo miliardo di dosi ai Paesi poveri. Finora, però, questi ultimi ne hanno ricevuto appena il 15 per cento. Poi c’è il nodo della sospensione della proprietà intellettuale...

Appunto. È trascorso quasi un anno dal 2 ottobre scorso quando India e Sudafrica presentarono la proposta all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) di rimuovere temporaneamente i diritti di proprietà intellettuale per far fronte alla pandemia. Un’eventualità prevista dallo stesso trattato costitutivo della Wto. Eppure, dopo decine di riunioni e polemiche, la proprietà intellettuale è più in vigore che mai.
Un recente studio dell’Imperial college di Londra in collaborazione con Public Citizen ha calcolato che, se si fosse agito allora, entro la fine dell’anno, sarebbero stati prodotti almeno otto miliardi di dosi in più di vaccini a base di mRna. Una quantità sufficiente per immunizzare l’80 per cento della popolazione delle nazioni a basso e medio reddito.

La battaglia alla Wto è, dunque, persa.
No e la società civile non è disposta ad arrendersi. Lo scorso 14 settembre c’è stata una riunione informale in cui si è discussa la proposta di India e Sudafrica di una sospensione di tre anni. L’Australia non si oppone più. E gli Usa hanno espresso disponibilità a trattare. Un primo passo.

Joe Biden si era già pronunciato a maggio per la sospensione dei brevetti. Le sue parole, però, non sono finora state tradotti in fatti. Perché ora dovrebbe essere differente?
C’è un fattore nuovo. Il dramma del ritiro afghano ha alienato al presidente molte simpatie nel fronte progressista. La battaglia del “vaccino per tutti” potrebbe aiutarlo a recuperare terreno. Anche in Europa potrebbe esserci un cambiamento dopo le elezioni tedesche. Annalena Baerbock, la candidata dei Verdi, s’è detta favorevole. Infine, c’è l’incognita Francia, con un Macron ansioso di recuperare terreno dopo “l’esclusione” dal cosiddetto piano anti-Cina. Per questo, è più importante che mai sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale. È il momento di premere.

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