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Se la politica non ha cultura perde idee e fini

Alfonso Berardinelli venerdì 23 novembre 2018
Politica, cultura. Sì, ma sui rapporti fra l'una e l'altra che cosa si può dire oggi? Ben poco. Perché la politica, già con gli ultimi vent'anni del Novecento ha cominciato con decisione o gradualità a espellere la cultura dai propri percorsi. Nei rari casi in cui un politico si è occupato di cultura, l'ha scelta soltanto se benedetta e consacrata dal successo di massa: qualche noto regista, qualche autore di bestseller, qualche cantante. Il cosiddetto crollo postmoderno delle ideologie (cosiddetto perché oggi le ideologie vivono nelle merci, nei consumi, nella pubblicità, nelle mode) è stato un crollo spesso salutato come una liberazione da pericolosi dogmatismi, mentre era anche diffidenza nei confronti delle idee, dei giudizi, delle scelte. I partiti smisero così di avere un retroterra culturale: sia perché le società e gli eventi erano diventati più "liquidi" e inafferrabilmente veloci (il consumo veloce è il primo comandamento del capitalismo di ieri e di oggi) sia perché le leadership politiche di sinistra e di destra preferivano libertà di movimento e di manovra (trasformismo) nell'inseguire le opportunità del momento. Ma la politica funziona così. È fluida e opportunistica per sua natura. Il primo teorico occidentale della politica come tecnica svincolata dalla morale, il nostro Machiavelli, sapeva che il politico deve e vuole anzitutto vincere, avere successo e controllare la durata del successo con tutti i mezzi, tanto con l'agire realisticamente più efficace quanto con l'esibizione di apparenze illusorie e mitologiche. Nella lotta politica la velocità e la sorpresa valgono più della verità e della coerenza. Per il politico, si tratta di cambiare ogni volta che la situazione dello scontro comincia a cambiare. Per questo il rapporto della politica con la società (benessere, sicurezza, giustizia) e con la cultura (conoscenze, idee, valori) è sempre un rapporto strumentale. Vale soltanto se serve a prevalere sull'avversario del momento. In una situazione in cui la politica è globalizzata e velocizzata dalle tecnologie informatiche, in cui la geopolitica mondiale entra tutti i giorni nelle nostre case parlando il linguaggio del calcolo economico-finanziario e delle legislazioni che lo regolano, c'è poco spazio per l'intellettuale umanista e i "tempi lunghi" delle sue riflessioni. I mezzi a disposizione sembrano, sono enormi e troppi. Gli scopi per cui usarli sono viceversa sempre meno chiari. Sviluppo non è sempre progresso, diceva Pasolini. E Aldous Huxley nel lontano 1937 pubblicò il libro Fini e mezzi per suggerire che la politica ha in mano i mezzi, ma sempre più spesso ignora la cultura che cerca di elaborare un'idea dei fini.