Opinioni

60 anni dal Concilio: annuncio e pace. Vita e parole per il mondo

Giuseppe Lorizio mercoledì 12 ottobre 2022

Nella memoria di san Giovanni XXIII abbiamo ricordato l’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II (11 ottobre 1962), accompagnato dalla carezza che il Papa ha indirizzato ai bambini con lo sguardo rivolto alla Luna. Al di là delle emozioni che tale evento ha suscitato nei nostri cuori e nelle nostre menti non si può ignorare il fatto che il messaggio di quel Concilio si è nutrito di nuovo impulso col pontificato di papa Francesco, reso possibile dalla scelta coraggiosa e decisamente conciliare (ovvero l’autorità autenticamente intesa come servizio) di dimettersi da parte di papa Benedetto (11 febbraio 2013). A sessanta anni di distanza, ma senza alcuna pretesa di esaustività, possiamo individuare tre punti di non ritorno e due processi in atto, che l’ultimo Concilio ci consegna.

Innanzitutto, la riforma liturgica, che trova il suo manifesto programmatico nella costituzione Sacrosantum Concilium, volta a rivitalizzare il culto e in particolare la celebrazione dei sacramenti, secondo il principio dell’actuosa participatio (attiva partecipazione) del popolo di Dio a questi momenti qualificanti la vita ecclesiale, nel tentativo di superare definitivamente quella che il beato Antonio Rosmini aveva individuato come prima piaga della Santa Chiesa, ossia la «separazione del clero dal popolo nel pubblico culto». In secondo luogo, l’apertura al dialogo nei confronti del mondo ( Gaudium et Spes), delle altre appartenenze religiose ( Nostra Aetate) e delle altre confessioni cristiane ( Unitatis redintegratio), con l’irrinunziabile consapevolezza della libertà di coscienza in particolare rispetto alle scelte di fede ( Dignitatis humanae) e nell’orizzonte non di omologare le differenze, ma in quello, indicato ora da Francesco nell’Evangelii gaudium, della «comunione nelle differenze» (n. 228).

Infine, il rinnovamento del sapere teologico, alla luce della costituzione Dei Verbum, col superamento del modello neoscolastico e della teoria delle due fonti, in quanto si è definitivamente acquisito il fatto che Scrittura e Tradizione non costituiscono due fonti della Rivelazione, ma entrambe provengono dall’unica sorgente: il Dio Uno e Trino. Certamente vi sono frange di credenti, di stampo fondamentalista, che si oppongono a queste scelte conciliari, in maniera a volte mediaticamente chiassosa, ma il popolo di Dio sembra ben inserito, anche se non sempre con piena consapevolezza, in questa prospettiva ecclesiale.

Quanto ai processi in atto, risalta quello della sinodalità, che si esprime nella celebrazione dei diversi sinodi a livello sia della Chiesa universale sia delle comunità nazionali e locali. Qui vive il messaggio comunionale della Lumen gentium, con tutta la fatica che il confronto tendente all’incontro comporta. La prospettiva di fondo, ancora una volta disegnata da papa Francesco, infatti, non è quella della piramide, ma viene rappresentata dal poliedro, «che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le loro proprie potenzialità. Persino le persone, che possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto» ( Evangelii gaudium, 236). Inoltre, il processo di riforma della curia romana, che dovrebbe costituire un paradigma per le Chiese locali, avviato dalla costituzione apostolica Praedicate Evangelium. Qui si pone al primo posto l’evangelizzazione, cui sono funzionali tutti gli organismi del servizio ecclesiale a livello centrale, e a cui va sottoposto anche il livello dottrinale, prima prevalente, del credere.

Nel dramma della guerra che stiamo vivendo, incombente nella sua atrocità anche all’inizio del Concilio (crisi dei missili di Cuba) il grido di pace del Papa e i suoi lucidi interventi trovano ispirazione profonda nell’insegnamento specifico del Vaticano II, che rinveniamo in Gaudium et spes: « Il progresso delle armi scientifiche ha enormemente accresciuto l’orrore e l’atrocità della guerra. Le azioni militari, infatti, se condotte con questi mezzi, possono produrre distruzioni immani e indiscriminate, che superano pertanto di gran lunga i limiti di una legittima difesa.

Anzi, se mezzi di tal genere, quali ormai si trovano negli arsenali delle grandi potenze, venissero pienamente utilizzati, si avrebbe la reciproca e pressoché totale distruzione delle parti contendenti, senza considerare le molte devastazioni che ne deriverebbero nel resto del mondo e gli effetti letali che sono la conseguenza dell’uso di queste armi. Tutte queste cose ci obbligano a considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova. Sappiano gli uomini di questa età che dovranno rendere severo conto dei loro atti di guerra, perché il corso dei tempi futuri dipenderà in gran parte dalle loro decisioni di oggi.

Avendo ben considerato tutte queste cose, questo sacro Concilio, facendo proprie le condanne della guerra totale già pronunciate dai recenti sommi Pontefici dichiara: ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione. Il rischio caratteristico della guerra moderna consiste nel fatto che essa offre quasi l’occasione a coloro che posseggono le più moderne armi scientifiche di compiere tali delitti e, per una certa inesorabile concatenazione, può sospingere le volontà degli uomini alle più atroci decisioni.

Affinché dunque non debba mai più accadere questo in futuro, i vescovi di tutto il mondo, ora riuniti, scongiurano tutti, in modo particolare i governanti e i supremi comandanti militari a voler continuamente considerare, davanti a Dio e davanti alla umanità intera, l’enorme peso della loro responsabilità » (n. 80). Così l’attuale vescovo di Roma, che non ha partecipato al Concilio, non manca di spronare la Chiesa tutta a vivere lo stile e lo spirito del Vaticano II, ricordando, come ha fatto nell’omelia di ieri, che non si tratta di un rinnovamento orizzontale, ma dettato dal « primato di Dio», in quanto la Chiesa, richiede anzitutto uno «sguardo dall’alto » , essendo definita, proprio dalla Lumen gentium «mistero e sacramento del Regno di Dio» e nella prospettiva dell’amore, alla quale conduce Gesù nella triplice domanda rivolta a Pietro « Mi ami?» ( Gv 21, 15). Infatti: « La Chiesa non ha celebrato il Concilio per ammirarsi, ma per donarsi».