Opinioni

La malattia dei figli e una madre. Scandalo del profondo (non fortuna e sfortuna)

Davide Rondoni sabato 6 ottobre 2018

Ci sono gli scandali della superficie, di cui tutti i media parlano. E poi ci sono gli scandali profondi. Tra le tante discussioni animate che rendono sempre interessante questo strano posto chiamato Italia, ce n’è una, da qualche tempo, che è centrale per la vita di tutti noi. L’ha innescata il libro di una nota conduttrice televisiva che ha collegato la parola 'dono' a una situazione di malattia che sta vivendo. Non si può chiedere a una conduttrice la precisione linguistica di un teologo morale o di un filosofo.

E molti, anche su questo giornale, hanno giustamente approfondito la questione e rimesso in ordine le parole. Ma lo scandalo resta, e infatti ieri, sulle pagine del quotidiano che vorrebbe essere il più laico d’Italia riesplode il grido di una madre, violentissimo, dolce, un grido sacro, in nome dei suoi figli ammalati. Grida contro coloro che hanno censurato o biasimato la parola 'dono'.

Mariangela Tarsi grida con la violenza di una madre innamorata dei suoi figli malati, e grida che in questa faccenda hanno perso loro, quelli che non sopportano la parola 'dono' accostata all’esperienza di vita accanto a esistenze così segnate. Loro che non considerano l’immenso lavoro per apprezzare il presente, il 'dono' di quel bimbo che era l’unico suo sano e ora ha il tumore al cervello, il dono di un uomo, degli amici, dell’odore del sugo della madre. Maria come una Lucia dei 'Promessi Sposi' grida ai Renzo che sanno solo pensare che nella vita l’importante è non cercarsi, ed evitare, guai che lei i guai, no, non se li è cercati e che dunque occorre valutare la vita in modo diverso.

Non basta dividere il mondo in 'fortunati' e 'sfortunati'. Nel grido dolce e sacro, violento di Mariangela, come nei Promessi Sposi, si affronta la questione suprema della cosiddetta modernità, proprio quella vorrebbe abitare il giornale ora diretto da Mario Calabresi, che queste cose le conosce fin da piccolo. Ovvero la questione di come misurare il valore della vita di un uomo. Ora che una cultura dominante in Europa cancella i simboli del sacro per lasciare solo grandi pannelli luminosi in cui si celebrano successo e fortuna, ora che siamo nell’epoca dei Brunetto Latini, inseguitori della fama e dei jack pot che danno fortuna alla vita, come potremo misurare il valore di una vita segnata? Fortunati e sfortunati, e via.

Ma la natura umana, che non a caso in una madre trova il suo grido, il suo nido più autentico, parla forte: voi, che valutate la vita così, 'avete perso'. Meraviglioso stupendo grido, riempie gli occhi di lacrime e cielo. La vita è certo fatta di guai che a volte non si possono evitare, il popolo manzoniano, semplice, mia nonna, lo sa. Ma questo non cancella la parola dono, la smisurata parola, dal volto della persona che soffre, dalle ore che battono nel petto, non cancella la parola che sola può indicare la natura della vita. Siamo nel vivo di un’epoca che occulta un tetro senso del destino sotto le paillettes del denaro, della lussuria, e del potere.

La eliminazione di una cultura del sacro ci consegna uomini e donne abituati a dividere crudamente destini e valore delle persone in due categorie, chi ha evitato guai (i fortunati) e chi invece no. Solo che il popolo della madre che grida sa che questa divisione è finta, perdente, cieca. E che occorre un’altra misura. Quella dismisura che il poeta dei Salmi accenna piangendo quando canta «prima che tu nascessi io ti conoscevo, dice Dio...». Quella dismisura che le madri e tutti i grandi pensatori e poeti della storia intuiscono e servono.