Opinioni

Come esuli non possono tornare indietro. Quei bimbi interpellano la nostra coscienza

Marina Corradi mercoledì 17 dicembre 2008
La morte del tredicenne afghano stritolato pochi giorni fa a Mestre dal Tir sul quale si era nascosto all’arrivo da un fortunoso viaggio clandestino attraverso la Grecia e poi su una nave per Venezia, ha come aperto nei media una breccia: da Herat, dalla Grecia il Corriere della Sera e poi un servizio di «Chi l’ha visto» su Raitre hanno raccontato la nuova rotta dei disperati verso l’Occidente. Vengono dall’Afghanistan, passano per Iran e Turchia, approdano a Patrasso, dove negli ultimi due anni gli arrivi sono raddoppiati. La Grecia ne accoglie una percentuale infinitesimale. Quelli si affollano in baraccopoli, in condizioni miserabili. Assediano il porto nel tentativo di nascondersi in una stiva o sotto un Tir. Pochi ci riescono. Qualcuno che ce la fa muore, come il ragazzino trovato a Mestre, quando finalmente credeva di essere in salvo. Ecco, quel ragazzino non è una storia straziante ma isolata. Sono tanti. Raitre ce li ha mostrati a Patrasso, affamati ma disperatamente decisi a raggiungere l’Italia. Hanno dodici, anche dieci anni. «Sì, lo sappiamo che anche chi di noi ce la fa a volte muore soffocato in un camion – dicono – ma non abbiamo scelta». Indietro non torniamo, giurano con un disperato istinto e desiderio di vivere, nonostante tutto. Indietro, poi: dove?Molti hanno perso i genitori in guerra. Molti non sanno più che ne sia stato, nei lunghi mesi del viaggio attraverso i sentieri delle montagne iraniane. Gli sguardi di questi ragazzi ci percuotono: perché parlano come adulti rotti a ogni fame e fatica, ma sono bambini, con le guance ancora morbide e lisce. Qualcuno di loro racconta di essere riuscito a saltare su un Tir, di essere arrivato in Italia e di essere stato rispedito indietro. Ma per la convenzione Onu dei Diritti del fanciullo, e per la legge italiana, un minorenne non accompagnato non può essere espulso. E allora vorremmo capire cosa succede a certi nostri varchi di frontiera; e se hanno ragione le organizzazioni umanitarie del porto di Venezia, che giorni fa hanno denunciato che non viene loro consentito entrare in contatto con tutti i clandestini che arrivano. Un dato del Centro italiano rifugiati dice che a Venezia gli operatori hanno incontrato, nel 2007, 642 clandestini, e che 141 erano minorenni, e di questi 125 afghani. Nulla si sa, naturalmente, di quelli che sfuggono ai controlli, oppure, come sembra, vengono respinti dove sono venuti.Numeri, in ogni modo, non piccoli di ragazzi e bambini in fuga da un Paese in guerra, in cui tra l’altro l’Italia è presente col suo esercito in una operazione di pace. Sbalordisce che un tredicenne profugo possa morire schiacciato dal Tir su cui viaggiava clandestino, che giornali e tv testimonino di questo esercito di giovanissimi disperati alle nostre porte, senza alcuna almeno visibile reazione dello Stato. O forse in queste cose vige una legge non detta, e cioè che più si accoglie e più i questuanti di pane e protezione aumentano, gonfiando rapidamente il flusso alle nostre porte? Certo se questo esodo continuasse ad aumentare occorreranno sedi internazionali per affrontarlo, più che la nostra polizia di frontiera. Ma intanto, sui ragazzini del porto di Patrasso, come su quel loro compagno trovato semisoffocato nel bagagliaio di un pullman di studenti italiani in arrivo dalla Grecia, non è degno dell’Italia chiudere gli occhi. Si guardavano, gli studenti italiani in gita e il ragazzo afghano, reciprocamente sbalorditi, come marziani di diverse galassie venuti per la prima volta a contatto. In effetti: i nostri ragazzi e quelli di Kabul, mondi incommensurabilmente lontani. Ma alla scolaresca del pullman, e ai nostri figli, bisognerà dimostrare che siamo tutti uomini. E non basteranno le parole.