Opinioni

Il caso Alfie e i bioeticisti. Obiezioni forti alla morte «miglior interesse»

Roberto Colombo domenica 20 maggio 2018

Sono note le drammatiche vicende di Charlie Gard, Alfie Evans e altri bambini cui in Inghilterra è stata applicata rigidamente la versione pediatrica del Liverpool care pathway for the dying patient. Il protocollo prende il nome dal capoluogo della contea del Merseyside dove venne inizialmente sperimentato già a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso. A esso hanno fatto riferimento anche altre strutture del servizio sanitario britannico nel decidere il «trattamento terminale» degli inguaribili considerati «senza speranza» e destinati a morire in un tempo indeterminato, più o meno breve. In alcuni casi, con l’autorizzazione del giudice, sono stati sottoposti alla procedura anche piccoli malati nonostante la volontà contraria espressa dai genitori. Storie emblematiche che hanno accesso un vivace dibattito non solo sociale e politico, ma anche nella comunità degli specialisti in pediatria, intensivologia e palliazione, e tra gli infermieri ed esperti di etica clinica del Regno Unito. Un recente editoriale del British Medical Journal – la prestigiosa rivista scientifica dell’Associazione dei medici britannici – a firma di due eticisti dell’Università di Oxford, Dominic Wilkinson e Julian Savulescu, riflette criticamente sull’attuale legislazione e prassi inglese in materia di consenso e dissenso tra i medici e gli infermieri dei centri clinici e i genitori dei bambini malati, offrendo argomenti per un ripensamento del processo decisionale su prosecuzione e sospensione di terapie e di cure fisiologiche. Diverse sono le opzioni considerate per evitare il ripetersi di «prolungate e dolorose dispute sul trattamento [dei bambini], devastanti per le famiglie e traumatiche per lo staff medico e infermieristico», alla fine delle quali «non vi sono vincitori, ma solo perdenti», e la cui vittima rischia di essere il piccolo malato. Vi è urgenza per «i professionisti di unirsi alle famiglie per esplorare e implementare nuove soluzioni costruttive capaci di evitare, mitigare e risolvere i disaccordi sui trattamenti». Davvero «questo sarebbe nel miglior interesse di tutti i bambini», concludono i due studiosi, che indicano alcune possibili vie di fuga dall’impasse attuale.

Se si continuerà a ricorrere a un tribunale ordinario, la questione centrale emersa nei casi di Charlie e Alfie si riproporrà: i giudici «devono prendere decisione basate sulla loro visione di quello che sarebbe meglio per il bambino (il 'miglior interesse' standardizzato) oppure sulla considerazione della presenza o meno del rischio di un sostanziale danno per il figlio connesso al trattamento preferito dai genitori». Sebbene i tribunali britannici solitamente «applicano alle decisioni sul trattamento medico la prova del 'miglior interesse'» individuato dal giudice nel corso del dibattimento, «vi sono robusti argomenti etici per sostenere che le decisioni di respingere le istanze dei genitori dovrebbero basarsi sulla seconda, più stringente considerazione», in cui l’onere della prova cade sull’eventuale rischio (da documentare) per il piccolo paziente, e non su un concetto generale di 'miglior interesse'. Ciò renderebbe l’argomentazione di queste sentenze in materia sanitaria «conforme alla regola applicata ad altri tipi di decisioni» giudiziarie. Dopo aver valutato opzioni alternative al ricorso ai tribunali ordinari – un tribunale ad hoc (il cosiddetto 'tribunale dei trattamenti', come in Texas), una «mediazione indipendente» o una «consulenza etica» preventiva del conflitto resa disponibile sia ai medici sia ai genitori – i due bioeticisti di Oxford concludono che, «ogniqualvolta sussista un ragionevole disaccordo su quale sia il 'miglior interesse' del bambino, i desideri dei genitori devono essere rispettati». Un orientamento esposto al rischio di non tutelare sempre il bene della vita del piccolo malato e il suo diritto inalienabile a non vedersi mai sottratti i supporti vitali essenziali e fisiologicamente efficaci fino al sopraggiungere del decesso non intenzionale, qualora si invertissero le richieste di medici e genitori rispetto ai trattamenti considerati. Storicamente, si deve tuttavia osservare l’attuale ampio prevalere al di là della Manica (e non solo) di forti spinte verso derive eutanasiche pediatriche omissive, nei cui confronti, al di là di pur robuste argomentazioni etiche, solo la naturale inclinazione dei genitori verso la cura premurosa e incondizionata del figlio rappresenta un argine non civilmente travalicabile che esige rispetto sociale e giuridico. In questa direzione si era mosso anche papa Francesco il 2 luglio dello scorso anno, attraverso un comunicato della Sala Stampa vaticana sulla vicenda di Charlie Gard e dei suoi genitori, «auspicando che non si trascuri il loro desiderio di accompagnare e curare sino alla fine il proprio bimbo». Senza sminuire la competente dedizione e la profonda passione umana dei medici e degli infermieri nell’assistere i piccoli pazienti inguaribili, l’ultima ragionevole e amorevole parola sui supporti vitali per la loro cura fisiologica da non far mancare sino all’ultimo istante in cui essi sono necessari non può essere negata ai genitori.