Opinioni

Tremila giorni di sacrificio. Nel nome di Asia Bibi

Fulvio Scaglione sabato 9 settembre 2017

Le foto ingiallite dal tempo mostrano il volto di una giovane donna che, a capo scoperto, guarda senza paura l’obiettivo. Quelle più recenti offrono solo un paio d’occhi che, dalla fessura del velo integrale, scrutano in modo febbrile la piccola stanza dei colloqui in carcere. I compiuti tremila giorni di prigionia di Asia Bibi, la donna e mamma cattolica pachistana arrestata nel 2009 dopo essere stata accusata di blasfemia da alcune musulmane del suo villaggio e dal 2013 rinchiusa in una delle tre celle del braccio della morte del penitenziario di Multan, si misurano anche così, con la perdita dell’identità e della fisicità, con l’annullamento della figura e della fisionomia.

Con la sua sofferenza, e soprattutto con l’essere totalmente disarmata di fronte al sopruso e all’ingiustizia, Asia Bibi porta sulle spalle il peso di una battaglia enorme, che vale per il Pakistan e per tutti i cristiani perseguitati nel mondo. Ed è, per contrasto, il volto di un ragazzo musulmano a farcelo capire, quello di Mashal Khan, 23 anni, studente di giornalismo presso l’Università Abdul Wali Khan, assassinato il 13 aprile di quest’anno tre giorni dopo aver criticato, durante l’apparizione in una tv locale, la gestione della stessa Università. Le autorità del campus lo avevano sospeso per «attività blasfeme». Tanto è bastato perché Mashal fosse linciato da una folla inferocita.

Dal 1990 a oggi, 65 pachistani sono stati uccisi in nome di una presunta «blasfemia». Nessuno di coloro che, in nome di questa legge arcaica, discendente delle norme contro le offese alla religione islamica dettate dai colonizzatori inglesi nel 1860, sono stati trascinati in tribunale è stato davvero portato al patibolo. Ma almeno dieci degli assolti sono poi stati uccisi da estremisti islamici e delinquenti di diversa provenienza, in qualche caso sul portone dello stesso tribunale. Perché la legge sulla blasfemia (inasprita e resa più arbitraria, senza onere di prova per l’accusa, nel 1986, nella fase finale della presidenza di Muhammad Zia ul-Haq) è partita come arma di discriminazione e oppressione delle minoranze etniche e religiose, ma è diventata lo strumento di soprusi che spesso hanno l’avidità o la vendetta come unica motivazione. Come appunto la tragica vicenda di Mashal Khan dimostra.

Il caso di Asia Bibi, quindi, proprio come Asia Bibi stessa, ha perso la figura e la fisionomia. Non è più "soltanto" la storia di una donna martirizzata, ma il simbolo di una battaglia di civiltà. Il che è tremendo per la persona, ma forse necessario per un Paese che fatica a sbarazzarsi di certi retaggi. Non è vero che il Pakistan sia ostaggio dei fanatici. La morte del giovane Mashal ha destato un’ondata di sdegno e di proteste senza precedenti per il Paese, con manifestazioni convocate proprio per chiedere l’abolizione di quella legge infame.

Ci sono uomini politici che hanno dato la vita per testimoniare la loro solidarietà alla mamma cattolica, mite esponente di una comunità che, nell’oceano islamico (97% della popolazione), difende con enorme dignità il proprio 2% scarso. Uno di loro era musulmano, si chiamava Salman Taseer, era il governatore del Punjab e fu assassinato da una delle sue guardie del corpo nel 2011, poco prima che la stessa sorte toccasse a un cristiano, Shahbaz Bhatti, primo e unico ministro per le Minoranze del Pakistan, colpito da un commando di terroristi. Ed è stato un altro musulmano, l’avvocato Saif ul-Malook, che ora assiste Asia Bibi, ad aver lavorato perché fosse condannato Mumtaz Qadri, il killer del governatore Taseer.

La stessa interminabile detenzione di Asia Bibi, causata dall’intervento della Corte Suprema che ha sospeso la condanna a morte emessa dall’Alta Corte di Lahore nel 2014, è il segnale del tormento vissuto dalla classe politica e dal sistema giudiziario pachistani, che non vogliono mandarla sul patibolo, ma non hanno la forza o il coraggio di lasciarla libera, sfidando così le corpose e violente frange dell’estremismo.

Un dilemma che si è ripetuto nel caso di Mashal Khan: l’allora primo ministro Nawaz Sharif (dimessosi pochi mesi dopo in seguito a pesanti accuse di corruzione) impiegò quasi due giorni prima di intervenire sulle accuse di blasfemia ribadite dall’Università nei confronti del ragazzo assassinato, ma poi fece muovere le indagini nella giusta direzione, con l’arresto di 33 persone.
È uno scontro epocale ma non senza speranza, quello in cui è rimasta impigliata la vita di Asia Bibi. Per la quale, comunque, liberazione non vorrebbe comunque dire libertà. Se uscisse dal carcere non potrebbe tornare alla propria vita. Dovrebbe lasciare il Pakistan con la famiglia, emigrare, inventarsi una nuova vita. Forse restare nascosta, perché il fanatismo può arrivare ovunque. In ogni caso, perdersi e annullarsi un’altra volta. Sarà nostro compito trasmettere alle generazioni future la memoria di questo sacrificio, di questo eroismo senza pretese che sta cambiando un mondo che pareva immobile. È il minimo che possiamo fare per la mamma che da tremila giorni aspetta una sentenza chiusa in una cella di 2,5 metri per tre.

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