Opinioni

Ucraina. Nei relitti dei carri armati memoria che non si cancella

Raffaella Chiodo Karpinsky martedì 23 agosto 2022

Sul viale Kreshatik, l’arteria principale di Kiev, sabato 20 agosto c’è stata una parata 'speciale': sono state esposte le armi russe catturate dagli ucraini. Una sfilata di carri armati e di altri strumenti di offesa e morte ammaccati, riversi, inermi. Una scena che mi ha riportato alla mente quella degli stessi carri armati, ma sulla piazza del Maneggio, a Mosca, esattamente 31 anni fa.

Quello stesso giorno con Tom Benetollo, allora presidente dell’Arci, e altri pacifisti italiani che come me si trovavano a Mosca per partecipare alla Convenzione europea per il Disarmo, partecipammo insieme alla popolazione civile della città alla rivolta e alla costruzione delle barricate per impedire l’avanzamento dei carri sulla Piazza Rossa e poi alla Casa Bianca, sede del Parlamento della Repubblica Russa.

Era il 20 agosto del 1991, il giorno dopo il colpo di Stato e il rapimento di Michail Gorbaciov, che si trovava in Crimea. Quello stesso giorno si sarebbe dovuto siglare il nuovo accordo fra le Repubbliche della ex Unione Sovietica. Il processo di cambiamento graduale di fatto fallì. Ci fu l’implosione dell’Urss, e successivamente lo stesso destino per la Csi (Comunità degli Stati indipendenti). Non è improbabile che uno dei carri su cui salimmo per parlare con i carristi, che poi si arresero e passarono dalla parte della popolazione, oggi si sia trovato nel cuore di Kiev, in quella parata.

Questa volta la scena della resa di fronte alle mani nude della popolazione invasa e incredula c’è stata solo nei primi giorni dell’invasione. E sappiamo la fine che hanno fatto ragazzi di leva dell’Armata Russa ignari e increduli quanto i civili inermi che si trovarono di fronte. Abbandonati i carri e tornati indietro verso il proprio confine, sono caduti sotto il fuoco 'amico'. I racconti dei soldati giovanissimi e sconvolti che parlano al cellulare con le madri e chiedono di tornare a casa sono ormai un ricordo che appartiene al passato di questa guerra.

Poi tutto è precipitosamente cambiato, trasformandosi nel vortice di umana disumanità. Bucha, Mariupol, Chernikhiv... ferite su ferite. Gli stupri, l’uccisione a bruciapelo dell’anziano in bicicletta e quella della famiglia nell’auto in cerca di salvezza, le persone dilaniate alla stazione di Kramatorg. L’elenco dello stillicidio aggiunge ogni giorno traumi difficili da superare per l’umana esperienza e memoria. Un solco così profondo e così duro. Ogni giorno più forte è il processo di separazione e di distacco dal mondo e dalla cultura russa, dalla sua lingua, che pure appartiene a tanta parte della stessa popolazione ucraina.

Si aggirano intorno alle carcasse dei carri sulla Kreshatik i cittadini di Kiev mentre in Estonia, a Narva, la città di confine con la Russia dove la popolazione è prevalentemente di lingua russa, c’è un altro carro armato. Si tratta di un esemplare del modello T-34 installato nel 1970 come monumento in occasione del 25° anniversario della vittoria sul nazismo, nel 1944. In quel territorio si svolse una delle battaglie più terribili tra l’Armata Rossa e l’esercito della Germania nazista. Il governo locale nei giorni scorsi ha deciso di abbattere il monumento a colpi di ruspa. Il sangue versato, la memoria di chi perse la vita in quella battaglia contro il nazismo, sono archiviati, se non rimossi per sempre.

Una sorta di cancel culture che ha preso piede in molti angoli dell’ex impero sovietico. Un processo che, oltre a dilagare in Ucraina, prende piede in Estonia, Lettonia, Lituania. Carri armati che, invece di restare esclusivamente dei monumenti, continuano a seminare morte anche oggi, e questa volta in uno scontro che progressivamente produce la cancellazione della memoria di altre fasi della storia. Tornando all’agosto del 1991, mi chiedo cosa resta oggi del moto di coscienza e rivolta spontanea dei cittadini di Mosca di allora, e di noi pacifisti italiani con loro.

Tom Benetollo, il 'lampadiere', ci manca, è mancato in questi lunghi anni da quando ci ha lasciati, e oggi manca più che mai a noi pacifisti che non smettiamo di credere nella necessità della buona politica e nell’esercizio della diplomazia, pur difficilissima ma indispensabile per la soluzione dei conflitti. Questa è la speranza che resta necessaria e a cui si aggrappano disperatamente i cittadini russi e del resto del mondo che si oppongono alla guerra. Di una cosa sono certa: Tom sarebbe stato vicino ai pacifisti russi, e anche lui porterebbe un nastro verde, simbolo della resistenza alla logica della guerra.