Opinioni

Reportage. Lo Yemen che insegue la pace cresce nel radicalismo islamico

Laura Silvia Battaglia giovedì 18 maggio 2023

A Mahra, l’Arabia Saudita aveva promesso miliardi per avviare grandi progetti, poi cancellati, come si vede dal cartello

Ci sono più cammelli transumanti in libertà che esseri umani sulla superstrada che porta dall’Oman, valico di Sarfat, al governatorato di al-Mahra, la prima regione yemenita dopo il confine. Ed è una sensazione simile allo scollamento tra una Svizzera e una regione bella quanto arretrata. Al di qua, larghe fattorie dove si sfruttano gli allevamenti di cammelli e i loro prodotti in tutte le loro forme possibili; al di là, il fascino di una costa selvaggia e incontaminata, in un paesaggio in cui ogni scarno albero della macchia del Golfo produce, al posto dei frutti, sacchettini colorati di spazzatura, abbandonati dal primo autista del giorno. Su questa costa Sud, nella sua estensione da oriente a occidente, si gioca la vera partita della pace in Yemen, che da tempo non è più nelle mani degli stessi yemeniti.

In quest’area del Paese, molto fedele al governo centrale e in ottime relazioni con l’Oman, si vive in continuità tribale con la regione omanita di Salalah: le tribù del Dhofar ci tengono a fare comprendere a ciascun visitatore questa dualità. Basta entrare in un albergo qualunque per vedere campeggiare al centro i ritratti affiancati del presidente yemenita Rashad al-Alimi e del sultano dell’Oman, Haitam bin Tariq. Anche la mobilità commerciale ne è un segno: businessmen, lavoratori e merci si muovono agilmente da un confine all’altro, su auto, camion e piccoli bus per viaggiatori e questa situazione permane dal 2016, dal primo anno di guerra in Yemen. Quel che è cambiato sono gli investimenti, le proiezioni verso il tempo di pace e le aspettative degli yemeniti della regione che cedono alle generose profferte dei sauditi, dopo i primi anni di iniziale ritrosia.

Sulla costa del Sud si gioca la partita politica per arrivare alla fine delle ostilità che stanno devastando il Paese dal 2016. La città di Mahra simbolo di uno sviluppo promesso e mai arrivato

Non distante dal capoluogo di regione, Mahra, una città polverosa e affollata, cartelloni freschi di stampa promettono grandiosi progetti: l’ospedale di Mahra, l’aeroporto di Mahra, il centro commerciale di Mahra, il complesso scolastico di Mahra. Tutti annunciati con conferenze stampa, dispiego di soldati governativi a protezione, e ospiti sauditi più di due anni fa. Al momento, sono siti abbandonati; i cartelli sono sbarrati con croci e nessuno nell’area ne sa nulla. Questi progetti fanno parte di un grande piano d’investimenti da 30 miliardi di dollari nei settori della sicurezza, forze armate, istruzione, sanità, economia di base. Ma nessuno, in questa zona dello Yemen, li ha mai visti. Tutti, invece, sanno come il presidente al-Alimi, grazie al generoso contributo economico saudita, abbia appena formato la milizia National Shield Forces, che risponde solo al suo comando, composta da sette brigate dell’esercito regolare yemenita e 8mila combattenti. Servirà a proteggere i governatorati di Lahj e Abyan dagli appetiti degli Emirati Arabi Uniti e delle milizie sue alleate nel Sud dello Yemen, che mirano, tramite il canale del governatorato di Mahra, a mettere le mani sulle riserve di al-Wadi, il petrolio della regione poco più a Nord-Est, l’Hadramout.

«L’Arabia Saudita, tramite il suo ambasciatore Muhammad al-Jaber, ha annunciato piani d’investimento in ricostruzione e infrastrutture oltre che in depositi monetari che però non sono ancora arrivati. Se mettiamo in relazione i fondi e contiamo i dieci miliardi di dollari in totale che sono stati spesi effettivamente in progetti sul terreno, ci rendiamo conto che c’è un buco notevole. Avremmo bisogno di una commissione d’inchiesta internazionale per capire dove sono andati a finire tutti questi soldi»: Adel al-Shugaa ha insegnato Storia dei Paesi arabi all’università di Sana’a. Oggi vive in esilio in Paese che si affaccia sul Mediteranneo ma ha le idee chiare su ciò che sta succedendo: « Il regno saudita aveva già bisogno di sostenitori all’interno dello Yemen, in modo da esercitare il suo potere e garantire la sua presenza in sicurezza ed è riuscito a farlo comprandosi la fedeltà tra le élite intellettuali e politiche, senza alcuna resistenza da parte degli yemeniti. L’antipasto è consistito nel comprarsi questa fedeltà prosciugando prima l’economia yemenita e le minime risorse economiche del Paese, e poi trasfor-mando gli yemeniti in questuanti, sul piano sia dell’aiuto umanitario che statale. L’Arabia Saudita c’è riuscita perché ha scoperto che gli yemeniti hanno la memoria corta come quella dei pesci».

Se la memoria è corta e offuscata dalla necessità, il terreno culturale è però fertile per piantare semi di estremismo e odio. Dei menzionati 30 miliardi di investimenti si vedono i risultati con chiarezza almeno dalla proliferazione dei centri islamici: strutture grandi, in grado di ospitare centinaia di bambini e ragazzi, sfamandoli giornalmente e indottrinandoli. Esattamente come accade in Pakistan e Afghanistan. Nei due centri di Hasween e di al-Sahaba i giovani ospiti sono già tanti e le famiglie sono sollevate dal provvedere alle loro prime necessità: cibo gratis, scuola gratis e la promessa - magari – di un lavoro in Arabia Saudita. Nel mese di Ramadan, le lezioni d’interpretazione del Corano non lasciano molti dubbi sull’impronta wahhabita. Quando arriviamo, il predicatore si concentra sulla lezione 156. Ci sono una quarantina di uomini e altrettanti giovani discepoli ad ascoltarlo: “Lui che ci aiuta a rialzarci ha dettato a Muhammad la sura sul rapporto di pace con i popoli del Libro. Mohammad scrive: «Non fate la pace con gli ebrei e con i cristiani. Se li incontrate per strada, spingeteli nel vicolo più stretto ». La maggiore preoccupazione degli uomini presenti è poi quella di capire come comportarsi con le proprie mogli nel caso in cui non avessero compiuto lavaggi rituali o rispettato il digiuno nel mese di Ramadan. ​

Bilal al-Sakani fa le domande che gli interessano per la sua vita matrimoniale. Complessivamente, è contento di questo centro e non gli passa nemmeno per la testa immaginare il rischio di radicalizzazione per i suoi figli, di un’educazione all’odio o al terrorismo: «Ho risolto molti problemi per i miei due figli maschi: la generosità saudita in quest’area è una benedizione per noi». Bilal è uno dei cosidetti muhamasheen, i neri yemeniti di ascendenza somalaetiope: sono i reietti della società yemenita, l’ultimo gradino nella scala sociale; i paria a cui si affida la raccolta della spazzatura e tutti i lavori più degradanti. Se i figli di Bilal riceveranno istruzione e magari anche un lavoro in Arabia Saudita, eviteranno le sofferenze e le umiliazioni del padre. Bilal è figlio di un migrante somalo arrivato in Yemen negli anni Ottanta ma sulla costa Sud ne sbarcano centinaia ogni giorno, soprattutto vicino alla città di Mukalla. Il traffico, con una media di 5mila ingressi al giorno, secondo i dati del 2019 distribuiti dalla ong The global detention project, è gestito e intercettato dalle milizie locali, bande di trafficanti che detengono i migranti in strutture lungo la costa: vere prigioni di lamiera, dove si praticano sevizie simili alle prigioni libiche, con la differenza che il taglieggiamento nei confronti delle famiglie di origine viene eseguito dalle milizie filo-emiratine, non particolarmente tenere anche con locali che potrebbero avere avuto dei legami con al-Qaeda, come ha dimostrato un’inchiesta dell’Associated Press che ha ricevuto il Pulitzer nel 2018.

Gli investimenti di Riad sono soprattutto in centri per l’insegnamento del Corano Un predicatore sottolinea l’ostilità verso ebrei e cristiani Ma la gente è interessata soprattutto ai servizi e ai pasti forniti ai ragazzi poveri

Chi resiste a queste angherie e riesce a scappare, il più delle volte finisce per ingrossare gli slum della capitale del Sud, Aden. Qui si incontrano donne e uomini scheletrici, dall’età indefinibile, deambulanti in pattumiere a cielo aperto, dove cumuli di spazzatura più freschi vengono bruciati tre volte al giorno sugli strati già incrostati dal tempo, dai primi anni della guerra. Pozze di spurghi salmastri di fogna definiscono l’urbanistica tra un blocco e l’altro. L’unico vantaggio che donne e bambini trovano in questo ambiente insalubre è concedersi una specchiata veloce nelle pozze, prima di andare a scuola o al mercato. Poi c’è chi non va né in un luogo né nell’altro, come Aisha che vive nello slum di Basatheen da cinque anni. Nella sua casa di quattro lamiere, una latrina, un fuoco e otto bimbi seminudi e urlanti, non c’è spazio per il comfort ma lei cerca di farci entrare almeno la speranza.

C’è anche un problema di sfruttamento della minoranza di origine somalo-etiope I trafficanti locali seviziano e sfruttano i migranti, come accade in Libia. E tanti vogliono tornare al di là del mare

«Sono arrivata venti anni fa su un barcone e sono stata una dei pochi a sopravvivere al naufragio. Ho avuto l’asilo in Yemen ma sono andata a lavorare in Arabia Saudita: checché se ne dica, lì si guadagna meglio. Con la guerra sono tornata in Yemen e le cose sono cambiate in peggio». Così Aisha ha deciso di tornare in Somalia, aderendo al programma di rimpatrio volontario predisposto da Iom e Unhcr dal 2017 per i somali che vivono in Yemen. A lei la pace imminente po co importa: in Yemen è pur sempre una rifugiata. Aisha ha ripreso a sognare la Somalia di notte e ha paura del mare. «Ma Dio mi ha aiutato allora e mi aiuterà anche adesso», dice. Comunque vada, la speranza sarà sempre l’ultima a morire. Anche per Aisha, figlia della povertà.