Opinioni

Il viaggio del Papa. L’Egitto che guarda al passato nel presente ha solo i militari

Giorgio Ferrari giovedì 27 aprile 2017

«Desidero che questa visita sia un abbraccio di consolazione e di incoraggiamento a tutti i cristiani del Medio Oriente; un messaggio di amicizia e di stima a tutti gli abitanti dell’Egitto e della Regione; un messaggio di fraternità e di riconciliazione a tutti i figli di Abramo, particolarmente al mondo islamico, in cui l’Egitto occupa un posto di primo piano». Le parole del Papa alla vigilia del breve e intenso viaggio in Egitto che comincerà venerdì con la visita al patriarca copto Tawadros II e si concluderà sabato con l’incontro con il grande imam di al-Azhar Ahmad Al-Tayyib – un viaggio in cui il Santo Padre, nonostante il clima teso e i problemi di sicurezza dopo il terribile attentato alle chiese copte, rinuncia deliberatamente a viaggiare in una vettura blindata – sembrano sgombrare il campo da ogni intento politico: l’incontro con il presidente Al-Sisi non potrà essere interpretato come un avallo al regime né come una sua condanna.

Ma al di là dell’intento ecumenico (rafforzato dalla presenza del patriarca Bartolomeo) ed interreligioso e del messaggio di pace e di fratallenza, quale Paese si appresta a visitare il Papa? L’Egitto di oggi abbonda di tormentose contraddizioni. La cronaca recente lo conferma. Due generali, due colonnelli, un maggiore, tre capitani e due agenti riconducibili alla National Security sono sospettati di essere coinvolti nel sequestro e nella successiva morte di Giulio Regeni. Un mese fa un manipolo di 'contractors' di una società russa (del tutto simili a quegli 'omini verdi' che per la prima volta ci toccò di vedere in Crimea, all’epoca dell’Anschluss condotto senza colpo ferire nella primavera del 2014 dagli uomini di Putin) sbarcava nella base aeronavale egiziana di Sidi el-Barrani, pronti a completare il blitz per liberare i pozzi della 'mezzaluna petrolifera' – Bin Jawad, Sidra, Ras Lanouf – che il generale libico Khalifa Haftar si era fatto sventatamente soffiare sotto gli occhi dalle Brigate di autodifesa di Bengasi. Nelle stesse ore scattava per l’ex rais Hosni Mubarak il decreto di scarcerazione: scagionato dall’accusa di aver fatto assassinare 239 oppositori che gli era valsa l’ergastolo nel 2012, l’ottantanovenne ex presidente, l’uomo che per trent’anni aveva guidato il Paese con pugno di ferro, può tornare a casa.

Ed è qui, da questa assoluzione che sigilla simbolicamente la chiusura del cerchio e la fine ufficiale delle Primavere arabe, che dobbiamo partire per comprendere che cos’è oggi l’Egitto. L’Egitto di Abdel Fatah-al-Sisi, sesto presidente della Repubblica, ex capo dei servizi segreti di Mubarak, oggi uomo forte – si dice ancor più implacabile del suo predecessore – del Paese, talmente forte da consentire e approvare la rilegittimazione di Mubarak, a conferma che con quel colpo di Stato militare del luglio 2013 con cui rovesciò il disastroso governo Morsi (l’unico nella storia egiziana ad essere stato democraticamente eletto se pure radicalmente dominato dai Fratelli musulmani) l’Egitto tornava a riaccomodarsi nell’unica forma di governo che è in grado di sostenere: quella della democrazia autoritaria dietro cui si cela senza troppo imbarazzo la casta militare, con i suoi privilegi, le sue immense ricchezze, la capillare presenza in ogni ganglio dello Stato.

Militare era Gamal Abdel al-Nasser, che nel 1952 guidò il colpo di Stato repubblicano che spodestò il re Faruq, militare fu il suo successore Anwar al-Sadat, pilota dell’aeronautica militare e generale nella guerra dello Yom Kippur era Mubarak e militare di carriera è al-Sisi. Solo Muhammad Morsi – tuttora detenuto nelle carceri egiziane insieme ad altre centinaia di oppositori – era un semplice ingegnere chimico senza esperienze militari deciso a introdurre l’osservanza della sharia nelle scelte pubbliche: un’anomalia, come quella del faraone Akhenaton, ostile al politeismo e per questo avversato dalla casta religiosa e condannato a una damnatio memoriae durata millenni. Gli egiziani non si fanno illusioni: i nomi di Alaa e di Gamal, figli di Mubarak, non sono certo quelli giusti per una possibile successione ad al-Sisi: entrambi uomini d’affari, scontano il peccato originale di non aver intrapreso la carriera militare.

In questo bizzarro 'ritorno al futuro' l’Egitto sposta indietro le lancette dell’orologio: le basi militari concesse ai russi non sono affatto una novità, ma solo una riedizione di quell’amicizia storica fra il Cairo e Mosca che oggi – complice anche la più sventata delle politiche americane in Medio Oriente, quella esercitata negli otto anni dell’amministrazione Obama – si riaccende consentendo gioco facile a Putin nel rinfilare una per una le perle della sua collana nei mari caldi: prima Sebastopoli in Crimea, poi Tartus in Siria, ora Marsa Matrouh e Sidi el-Barrani in Egitto (quest’ultima per tutta l’era Nasser capace di ospitare migliaia fra piloti, soldati e unità d’élite dell’Unione Sovietica), tra breve, probabilmente, Bengasi.

Nel celebrare solennemente il funerale delle Primavere, delle speranze dei giovani e dello Stato di diritto – la sola Tunisia resta a testimonianza del coraggio di un progetto politico e civile attuabile – l’Egitto ha peraltro ben poco di cui vantarsi. Non fosse per quel prestito di 12 miliardi di dollari in tre anni elargito dal Fondo Monetario Internazionale, l’economia sarebbe in grave debito di ossigeno. E se le esportazioni riprendono in alcuni settori a volare, ciò si deve alla pesante svalutazione della lira egiziana, che dal novembre 2016 si è deprezzata del 50%: come dire, un pugno nello stomaco per la già sfibrata classe media del Paese, per non dire del vasto Lumpenproletariat, bastonato dall’impennata dei prezzi della benzina, dell’elettricità, del pane. Stretto nella morsa delle proprie contraddizioni, l’Egitto di Al-Sisi si difende come può. Una nuova rogatoria su Regeni probabilmente scoperchierebbe, se davvero concessa, responsabilità di altissimo livello.

La Primavera che aveva acceso speranze e illusioni ora lascia il posto a uno sconforto collettivo: solo Gheddafi e Ben Ali sono caduti, ma in Libia c’è il caos come nello Yemen, in Siria Assad è ancora al comando. L’Egitto – esattamente come nella Russia di Putin che riabilita e vagheggia l’età d’oro degli zar – oggi guarda con rimpianto al trentennio di Hosni Mubarak, longevo come il faraone Ramsete II. E si fa – perfino – il nome di Gamal: figlio tecnocrate del rais, ma senza divisa e stellette. «Non glielo consentiranno mai – dice il beninformato Ala al-Aswani, lo scrittore autore del fortunato Palazzo Yacoubian – ma il fascino di famiglia è rimasto intatto...». Permane la mesta considerazione che nonostante la serrata e occhiuta sorveglianza politica, nonostante la pervasiva presenza della polizia gli attentati alla minoranza cristiana in Egitto non hanno visto la sperata diminuzione. Una minoranza che Al-Sisi cerca come può di tutelare e proteggere (anche in considerazione del peso non indifferente nella vita economica della nazione), ma che di fatto rimane sostanzialmente indifesa di fronte alla barbarie del jihadismo. Ed è questa forse la più grave delle piaghe dell’Egitto di oggi.