Opinioni

La primavera di Ankara e i venti di guerra che soffiano a Damasco. Il puzzle turco-siriano

Fabio Carminati mercoledì 5 giugno 2013
L’ultima delle «primavere» – non vi è dubbio che lo sia proprio perché Recep Tayyip Erdogan afferma il contrario – porta dentro di sé una profonda contraddizione. E un elemento di terribile "continuità" e contiguità regionale. I giovani di piazza Taksim somigliano molto a quelli di Tahrir: non per il bersaglio delle loro proteste, ma per le motivazioni che li spingono. Oltre due anni fa i ragazzi egiziani e oggi quelli turchi, chiedevano e chiedono una cosa sola, Semplice, elementare e per questo assoluta: libertà. I primi da un faraone che disponeva, faceva e disfaceva tutto a dispetto delle regole, i secondi si ribellano invece proprio alle regole che il leader dell’Akp ha imposto in sordina, con un maniacale crescendo di norme ispirate alla nuova islamizzazione della società turca e diametralmente opposte a quella laicità costituzionale nella quale proprio i giovani di piazza Taksim sono invece cresciuti.Per questo, non sbaglia chi afferma che siamo davanti a una primavera di secondo livello. Quella egiziana, tunisina e libica, attraverso votazioni non proprio ortodosse nel loro svolgimento, sono diventate società nelle quali l’islamizzazione della politica ha superato abbondantemente le intenzioni e le attese della piazza. Vivendo per questo momenti di aperta rivolta a favore di chi le "prime primavere" aveva avviato e contro chi le sta ora cavalcando e snaturando. Basti pensare a quanto succede da mesi al Cairo. In Turchia, ora, si parte invece da ciò che i giovani egiziani di piazza Tahrir volevano raggiungere. E si fa un percorso a ritroso.Il paradosso è proprio questo: le "prime primavere" e l’azione di Erdogan stanno tendendo allo stesso obiettivo: le regole islamiche elette a regola di governo. Con ampie accelerazioni in senso antidemocratico. Indipendentemente da come andrà a finire a Istanbul e ad Ankara, su tutto questo si inserisce poi un elemento di contiguità regionale. È innegabile che la rivolta turca va a complicare una situazione regionale drammatica. Erdogan, dopo le vacanze di famiglia trascorse con il rais siriano Assad, da oltre un anno si è arruolato nella schiera dei suoi più acerrimi nemici. E questa crisi giunge proprio alla vigilia della sempre più problematica convocazione della Conferenza di Ginevra 2, che dovrebbe affrontare lo stillicidio di massacri che da più di due anni insanguina la Siria. Un fattore di ulteriore avvitamento dello scenario, che non può non venire letto come un "vantaggio" per il presidente siriano nel suo momento di maggiore difficoltà sia sul terreno sia a livello di alleanze internazionali. Le difficoltà di un "avversario di confine" come Erdogan sono manna per Assad, che potrebbe quindi giovarsi dell’ennesimo aiuto involontario di cui ha goduto nei momenti più delicati della gestione del conflitto: dal riaccendersi del tragico focolaio di Gaza al continuo innescarsi della "bomba a tempo" libica dopo l’attacco al consolato statunitense dello scorso 11 settembre, passando per gli attacchi terroristici in Algeria e per i fronti di guerra aperti nell’area sahariana e subsahariana. Per altri verso, però, il caso turco finisce per confermare, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la crisi siriana è e resta la "madre di tutte le crisi" mediorientali. Tra dieci giorni, poi, si voterà a Teheran. Vedremo se, per allora, la rivolta turca sarà stata domata o se sarà esplosa ulteriormente. Di certo Bashar al-Assad e i suoi alleati libanesi di Hezbollah hanno ora più carte a disposizione nella loro spietata partita con un’opposizione egemonizzata da jihadisti altrettanto spietati. E l’agonia del popolo siriano, un popolo fatto ormai più di sfollati che di abitanti nelle proprie case, si allunga.