Opinioni

L'apriori della dignità nella diversità delle culture. Il primato del bene umano rispetto al soggettivo

Francesco D'Agostino martedì 9 dicembre 2008
Per quali valori costituzionali devono battersi i cattolici? Per tutti o per alcuni soltanto? Per quelli assolutamente consolidati e condivisi? O anche per quelli, aspramente controversi, che ad avviso di alcuni starebbero solo ora emergendo alla coscienza pubblica e che meriterebbero di essere riconosciuti come fondati sulla stessa Costituzione (anche se a prezzo di vere e proprie contorsioni interpretative, come nel caso della pretesa dei conviventi al riconoscimento legale della loro unione)? Domande pesanti, che potrebbero però essere spiazzate da una domanda più pesante ancora: perché si dovrebbe continuare a vedere nella Costituzione una carta dei valori e non la si può intendere semplicemente (e riduttivamente!) come un insieme di norme tecniche, di altissimo rango formale, finalizzate a regolare in forme proceduralmente corrette la vita sociale di tutti, credenti e non credenti, liberali e socialisti, cittadini e stranieri? A queste domande, nelle loro più sottili varianti, ha cercato di dare risposte meditate il 58° Convegno nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, che si è appena svolto a Roma. Tra le tante riflessioni, è emersa anche una provocazione: un relatore ha esortato i convegnisti a prendere atto che nell’epoca della secolarizzazione la cristianità (non la Chiesa o i cristiani!) non esiste più e che di conseguenza la convivenza sociale non può più pigramente radicarsi in valori cristiani sociologicamente diffusi e condivisi, ma deve essere di continuo costruita e ricostruita con forme sempre nuove di impegno... La questione è cruciale. È evidente che nella società postmoderna e multiculturale il cristianesimo, come confessione religiosa, acquista la configurazione di una "parte", spesso addirittura minoritaria, ed ha quindi il dovere di riconoscersi come tale. Ciò però cui il cristianesimo non può rinunciare (perché ne va della sua stessa identità) è la sua "cattolicità": esso ha ricevuto dal suo fondatore il mandato di annunciare a tutti, nessuno escluso, la buona novella. Religiosamente questo implica il dovere di evangelizzazione. Politicamente ciò comporta il quotidiano impegno per la difesa della dignità e del bene di ogni uomo. Una pretesa, quest’ultima, che nella prospettiva del relativismo oggi così diffuso appare a molti non credibile e che spesso viene malevolmente interpretata, nell’incontro/scontro tra culture, come una mascheratura di forme indebite di proselitismo. Non è così. Ai cristiani, ai cattolici, ai giuristi cattolici spetta insistere sull’universalità dei diritti umani, al di là e al di sopra delle divisioni culturali, perché la famiglia umana è una e una soltanto e ciò che ne unisce i membri è infinitamente più rilevante di ciò che li divide. È evidente che diffondere e rende operativa questa prospettiva implica impegni e sforzi teorici e pratici non comuni: in tal senso i diritti umani e i valori costituzionali che in essi trovano fondamento non sono riassumibili in un codice chiuso e inerte, ma vanno continuamente ripensati e ribaditi (e qui si collocano le buone ragioni di chi legge la Costituzione come un testo "aperto"). Nello stesso tempo  quei valori si radicano in un apriori insuperabile: quello della pari dignità di tutti gli uomini e del primato del bene umano rispetto ai desideri e alle preferenze soggettive dei singoli (e qui stanno le buone ragioni di chi ritiene che la Costituzione vada innanzi tutto "difesa"). L’apriori della dignità e del bene umano è compatibilissimo con la varietà delle culture e degli stile di vita, ma non con le teorie relativistiche e relativizzanti che caratterizzano in gran parte il nostro tempo. Quando in una cultura (e quindi anche nella nostra) emergono alterazioni, deformazioni o violenze contro la dignità della persona e il bene umano (pena di morte, sfruttamento dei soggetti deboli, discriminazioni, mutilazioni fisiche, manipolazioni genetiche, ecc.) bisogna dire di no, con voce alta e ferma. È un no che i giuristi cattolici, che tanto hanno contribuito sessanta anni fa alla stesura del testo della nostra Costituzione, devono continuare a ribadire, senza stancarsi mai: e non per ragioni confessionali, ma per ragioni di giustizia.