Opinioni

No al pensiero debole. Il dovere che ci tocca nel tempo della crisi

Giulio Albanese sabato 10 novembre 2018

Gli atteggiamenti di intolleranza cui assistiamo con maggiore frequenza, unitamente a quel sentire venato di angoscia e nutrito dall’impotenza di fronte ai problemi della vita che spesso emerge nelle nostre società, sono sintomatici di quella che potremmo definire una 'crisi di civiltà'. Si avverte sempre di più la sensazione che quella fase della nostra lunga storia europea, scandita da secoli di supremazia, sia definitivamente giunta al tramonto e che si apra una stagione di segno contrario, caratterizzata dal crollo dei tradizionali equilibri geopolitici, dal declino di alcune istituzioni e dalla progressiva perdita di alcuni valori ritenuti ben consolidati.

Questo ripiegamento si evince soprattutto dall’inquietante declino demografico: come se venisse meno anche la volontà di avere un futuro 'biologico'. Nel 1971, i giovani italiani sotto i 30 anni erano il 45,6% della popolazione; oggi sono il 28,4%. Non solo, per la prima volta nella storia italiana, gli over 60 sono più numerosi dei giovani. Sbaglia, però, chi crede che quanto sta avvenendo sia frutto del destino. Ciò cui assistiamo affonda le radici in un passato recente che ci appartiene, nel bene e nel male, nella grazia e nel peccato. Nella Vecchia Europa sono venute meno le sicurezze tipiche delle generazioni del Dopoguerra, innescando un arretramento della condizione sociale di molti.

Le persone, la nostra gente, anche coloro che si dicono cristiani, hanno paura (anche se spesso immotivatamente), sentono di camminare sulle sabbie mobili e riversano la propria rabbia su chi viene indicato come minaccia prossima: l’immigrato e, in genere, ogni forma di alterità. Nasce da questi stati d’animo la difficoltà psicologica, ma soprattutto spirituale, di credere nel futuro, di aprirsi a esso, di cominciare a costruirne uno.

Una condizione alla quale ha dato un contributo decisivo il constatare da parte della gente comune come stiano scomparendo dall’orizzonte del pensiero politico, culturale e religioso dell’Occidente e dalla sua azione concreta dimensioni, ideali e modalità che non solo ne avevano caratterizzato la secolare esistenza, ma ne avevano altresì assicurato il rilevante successo. Per esempio, se si guarda a quelli che sono considerati i tre padri fondatori della Comunità economica europea, poi Unione Europea, si nota - ed è risaputo che il tedesco Konrad Adenauer, il francese Robert Schuman e l’italiano Alcide De Gasperi erano tutti cattolici. Essi avevano presente il nesso 'religionesocietà', quello che oggi è stato messo fuori gioco da élite di debolissima visione ideale, storica e politica, le quali hanno così creato spazi di vuoto culturale e sociale enormi. Quel vuoto che, proprio in Europa, da tempo, forze ambiguamente eterogenee hanno riempito con le loro improbabili ricette dalla forte presa emotiva. Ecco che allora ha preso il sopravvento il cosiddetto 'pensiero debole' (da tempo in circolazione).

Di che cosa si tratta? Esso equivale alla negazione del discernimento ed è un fenomeno trasversale, tipico di chi si trova disorientato di fronte all’evoluzione sociale, proprio com’era già avvenuto, in altre forme, all’indomani della prima rivoluzione industriale, quando le correnti del positivismo si confrontarono sulla necessità di orientare i cambiamenti. La globalizzazione, insieme a tutto il proprio potenziale positivo- come hanno denunciato spesso le nostre missionarie e i nostri missionari che operano nel Sud del mondo - sta confinando la complessità dell’uomo in una gabbia essenzialmente economica o finanziaria, in cui omologazione acritica e squilibrata distribuzione della ricchezza veicolano un senso di disorientamento e incertezza, con un impatto negativo sulla sfera dei valori.

È vero, comunque, che questo degrado è pure da addebitare alla crisi sistemica delle agenzie educative, a partire dalla famiglia, che dovrebbe essere il primo soggetto di formazione, anche civica. E, naturalmente, ci sono le indubbie responsabilità della scuola, rimasta spesso in affanno nel gestire il delicato rapporto tra istruzione e trasformazione sociale, soprattutto nel rivalutare oggi la natura stessa e i valori dell’educazione. È evidente, infatti, che i saperi funzionali alla società contemporanea dovrebbero coniugare l’aspetto relativo al 'contenuto' da apprendere con quello relativo alle 'procedure' con cui apprendere. Una sfida a volte disattesa anche dalle nostre stesse comunità cristiane, incapaci, non poche volte, a livello formativo di cogliere e trasmettere valore e senso del binomio 'fedecittadinanza' o, più precisamente, 'dottrina socialeeducazione al bene comune'. In tutto questo ragionamento, la parola 'speranza' resta comunque fondamentale, perché ogni crisi non è mai definitiva, come insegnavano gli antichi greci, che utilizzavano il termine krisis per indicare una scelta da operare, una decisione da prendere, un passaggio decisivo che può e deve essere affrontato per muovere verso una condizione migliore.