Opinioni

La grandi trasformazione del lavoro. Il capitalismo scardinato dall'euro e da Facebook

Roberto Sommella martedì 31 luglio 2018

Karl Marx, in uno scritto messo da parte da chi ne celebrò solo l’impegno comunista, immaginò nel 1858 un’epoca in cui le macchine avrebbero fatto la maggior parte del lavoro e in cui la «conoscenza» sarebbe diventata «sociale». Da questo conflitto ne sarebbe scaturita la fine del capitalismo perché il profitto non sarebbe più scaturito dai lavoratori. Quel lavoro si chiamava Frammento sulle macchine. Si intreccia profondamente con le riflessioni più attuali su un modello di sviluppo sostenibile e appare quanto mai utile per capire la Grande Trasformazione che stiamo vivendo e che ha due eventi chiave: la nascita dell’euro e quella di Facebook. I cambiamenti dei rapporti economici in Europa partono dall’Unione monetaria e si accompagnano al boom dell’economia digitale. La prima ha ridotto i margini di manovra delle finanze pubbliche nella spesa per investimenti industriali e modificato il potere d’acquisto dei cittadini; il secondo ha profondamente modificato i rapporti tra capitale e lavoro, a tutto vantaggio del primo.

Per spiegare quest’ultima evoluzione partiamo dal dibattito sull’uscita di scena, drammatica quanto fulminea, di Sergio Marchionne. L’uomo dal maglione nero è entrato nel mondo dell’auto in un anno che ha segnato il definitivo abbandono di alcune logiche. Mentre si sedeva sulla poltrona di amministratore delegato di quella casa automobilistica che avrebbe poi cambiato veste da Fiat a Fca, incorporando la più piccola delle tre “sorelle di Detroit”, nel 2004 Mark Zuckerberg fondava il suo social network e Google veniva quotata alla Borsa di Wall Street. Marchionne, e tanti altri con lui, si è trovato nel bel mezzo della quarta rivoluzione industriale che non aveva più al suo centro il cuore della società moderna: la fabbrica. Oggi un’azione del social network più famoso del pianeta vale circa 200 dollari, Google veleggia sui 1.200 dollari, Fca e Ferrari si fermano rispettivamente a 16 euro e 120 euro circa. Un’azione di Facebook, che ha trasformato le identità personali, i Big data, nel nuovo combustibile che non fa accendere motori, ma moltiplica la pubblicità in rete, vale quasi tre volte un barile di greggio Wti, che invece è sempre alla base del fluido che i motori della Fca ingurgitano, vista la scelta di non entrare nel mondo elettrico. E se si va alle capitalizzazioni, la situazione non cambia. Apple primeggia intorno ai 900 miliardi di dollari, seguita sempre da Amazon e Google. Un’azienda normale che impiega uomini e donne per costruire una quattroruote vale sui mercati intorno ai 60 miliardi, si chiami Fiat nel suo complesso, Bmw o Tesla. Il distacco è netto, siamo al Jurassic Park industriale. E non solo.

Con l’avvento dell’economia digitale, il lavoratore è diventato sempre più consumatore. Ma se il primo si impoverisce, il secondo sparisce. O diventa qualcos’altro, un «prosumer» , neologismo americano che indica un producer e un consumer allo stesso tempo. Ci si affida a una miriade di piattaforme di economia condivisa che permettono a chi ha perso posizioni nella società – un’intera classe media in Usa come in Europa – di crearsi un modello di sostentamento alternativo, che ruota intorno alla propria casa, all’automobile, che diventa bene da affittare (Uber) o condividere (Bla Bla Car), persino alla propria cucina. Qualcuno l’ha chiamata «decrescita felice», non certo allegra per chi di mestiere faceva o fa l’operaio. Se oggi la prima azienda manifatturiera del mondo si chiama Apple e per incamerare 80 miliardi di utili impiega negli Stati Uniti solo 80.000 dipendenti, mentre ai tempi in cui Marchionne nasceva, la leadership era della General Motors, che dava lavoro a 600.000 americani per incamerare solo 7 miliardi di utili, significa che l’auto, l’acciaio, l’industria intesa come capannoni, reparti turni e pause, ha di fronte sfide immense e immensi interrogativi. E Marchionne l’aveva capito.

Sul fronte della moneta unica lo choc è stato analogo e bisogna ammettere che se ancora nel 2018 circa quindici milioni di italiani vogliono tornare alla lira, non si tratta di matti visionari. Un problema c’è e si potrebbe sintetizzare con il fatto che l’Italia emette debito in una moneta che non controlla più ma che certo non può coniare di nuovo. Piuttosto si dovrebbero emettere strumenti di debito comunitari. Senza voler riaprire vecchie ferite come ad esempio il tasso di cambio che a molti parve eccessivo (1.936,27 lire per un euro, prontamente portato in alcuni casi a 2.000 lire) e frutto di un regime fisso legato agli ultimi anni di Ecu, che premiava il marco, qualche calcolo di quelli che si fanno al mercato è ora di farlo. Una ricognizione (chi scrive l’ha compiuta in L’euro è di tutti) su cento prodotti e servizi, fotografati nel 2001 e rivalutati al 2016, mostra un andamento dei prezzi a due facce. Se alcuni beni hanno fatto registrare sensibili riduzioni anche del 25% o sono rimasti invariati, altri generi di largo consumo, tolta l’inflazione, sono diventati molto più cari. Una pizza margherita, è aumentata del 98%; un chilo di pasta integrale è salito del 79%, un chilo di fettine di vitello del 69%. Sul podio il cono gelato (+206%), la penna a sfera (+188%) e il tramezzino: lo spuntino per eccellenza costava solo 1.500 lire e oggi lo si trova in media a 2,10 euro (+114%).

Non si vive di solo pane, ma milioni di italiani quello si possono permettere. Se rimpiangono la lira non è quindi perché hanno nostalgia del telefono col filo o della tv in bianco nero: per mancati controlli nel periodo di doppia circolazione, arrotondamenti preventivi, assenza di sostegni alla perdita di potere d’acquisto, con l’euro si sono davvero impoveriti. Un esempio su tutti. Molti previdero il boom immobiliare grazie alla riduzione del costo dei mutui per via dell’abbassamento dei tassi, moltissimi furono però colpiti dal raddoppio dei prezzi delle case e degli affitti, frutto della corsa al mattone. Se le rendite sono aumentate dal 2002 a oggi, grazie all’aumento delle possibilità di investimento, i redditi da lavoro dipendente sono rimasti quasi al palo, tanto che quelli pro capite sono addirittura fermi ai valori del 1999. Una bella fetta del nostro Paese a inizio millennio, proprio mentre nascevano e si consolidavano quelli che sarebbero diventati i campioni della Gig Economy, è così rimasto indietro. Nell’ultimo decennio i poveri in Italia sono raddoppiati e solo negli ultimi dodici mesi i milionari sono cresciuti quasi del 10%.

Nel nostro Paese si è quindi diffusa la convinzione che piuttosto che sfruttare le opportunità del nuovo mercato digitale, tutte da verificare in termini di nuovi (e veri) posti di lavoro, sia meglio tornare alla vecchia moneta, stampare valuta, ricelebrare il matrimonio tra Tesoro e Banca d’Italia, riavere le chiavi della cassa. Ma tornare alla fabbrica del Capitale o varcare le soglie del Poligrafico per coniare le lire, è impossibile. Quel capitalismo è finito, l’aveva profetizzato Marx, lo sapeva bene Marchionne.