Opinioni

Il cappottino rosso di Schindler's List. A Sochi banalizzato il male?

Edoardo Castagna sabato 22 febbraio 2014
Raccontava Primo Levi che ad Auschwitz era tormentato da un incubo ricorrente. Sognava di sopravvivere, di tornare a casa e raccontare: ma non era ascoltato. Era quello che gli ripetevano i suoi stessi aguzzini: non scamperete, ma se anche qualcuno dovesse farcela, nessuno gli crederà. Troppo grande, troppo inconcepibile è il male del lager.
Per evitare che quell’incubo diventi realtà s’impegnano i sopravvissuti, le istituzioni, le scuole, la cultura; ma ogni anno, il 27 gennaio, la Giornata della memoria è accompagnata da un dubbio: l’istituzionalizzazione del ricordo non rischia di renderlo fredda retorica, ritualità svuotata? A cercare di impedirlo interviene non solo la viva parola dei superstiti – che tuttavia l’anagrafe condanna a essere sempre meno –, ma anche quella dell’arte. Letteratura, teatro, cinema ricercano sempre nuovi linguaggi per raccontare. Anche qui s’annida il rischio di smarrire il senso profondo della memoria.
Così può accadere di vedere alle Olimpiadi una pattinatrice scendere sul ghiaccio sulla musica della colonna sonora di Schindler’s List e indossando un costume di paillette che riproduce il celebre cappottino rosso del film di Spielberg. Quel cappotto, unica nota di colore in una pellicola in bianco e nero, prima appare addosso a una bimba nel ghetto di Varsavia, e poi – terribile poetica allusione – nel mucchio dei vestiti tolti ai morti. La pattinatrice, Julija Lipnickaja, ha appena quindici anni; dice di aver scelto lei stessa musica e costume perché «amava la canzone» e «aveva visto tante volte il film, immaginando di essere la bimba con il cappotto rosso».
Non è certo a Julija, ragazzina costretta a crescere troppo in fretta, che si può far colpa di questa apparente insensibilità. È vero che in Russia, a differenza dell’Occidente, la Shoah è vista solo come uno dei tanti caratteri del nazismo e non come emblema del male universale; tuttavia colpisce che nessuno – allenatori, federazioni, giurie – abbia avuto nulla da obiettare. Se, ai tempi del processo Eichmann, Hannah Arendt aveva denunciato la banalità del male, il nuovo, sottile pericolo è la banalizzazione del male.