Attualità

Reportage. Tra gli uomini, nel mondo di Saman. «Tutto per i figli. La violenza? Mai»

Paolo Viana, inviato a Novellara (Reggio Emilia) domenica 13 giugno 2021

Saman senza velo e occhiali, sorridente, coi suoi piercing

Alì è musulmano e viene dal Punjab, come gli Abbas. Ha trascorso vent’anni a Novellara, curvo sotto il solleone della Bassa reggiana, a coltivare cocomeri. Ogni giorno uguale agli altri. Quando si finisce con le angurie, ci si sposta tra i tralci del Lambrusco. Dall’alba al tramonto, per spedire duemila euro in Pakistan, a moglie e figli, ma anche a uno stuolo di parenti. Quelli, per ringraziarlo, si sono presi la sua eredità: sgobbare in un Paese ricco è considerato un privilegio da chi resta in patria.

Alì non ha studiato, ma se gli parli di Shabbar Abbas, il papà di Saman, apre il libro di storia: «Ormai sono episodi isolati anche da noi, il Pakistan è cambiato e non siamo più nel 1845». Il riferimento è alla guerra tra i sikh e la Compagnia delle Indie che portò alla sottomissione del regno indù. Sembrano passati due secoli. In realtà, a giudicare dal caso di Saman, la ragazzina che sarebbe stata giustiziata da genitori e parenti per aver disonorato la famiglia, la mentalità nelle zone rurali del Pakistan non sembrerebbe cambiata: «Non è così. Ci ammazziamo di lavoro per i figli, ma riconosciamo che la vita è la loro. Non siamo tutti padri padrone. Mia figlia ha sposato chi voleva: ha ripagato i miei sforzi studiando, non sposando chi volevo io. Adesso lei è medico». Si ferma un istante e sottolinea: «È un dottore, un dottore, capisci?». Capisci che in quella parola c’è tutta la vita di un padre, in Pakistan come altrove.

I colleghi di Shabbar gli voltano le spalle. Hanno compiuto lo stesso percorso: la clandestinità e il lavoro duro, fino al permesso di soggiorno e al ricongiungimento famigliare. Una vita contata al centesimo, per decenni. Una pizza d’asporto alla settimana come unico lusso, sognando di tornare a casa, un giorno, più ricchi e più liberi. Ammettono che il Pakistan cambia più velocemente di loro: «Da quando c’è la televisione e internet, i nostri figli conoscono il mondo e decidono il loro futuro». Qualcuno ammette che la violenza può ancora abitare le «zone arretrate» dove i figli sono ancora una «proprietà» e si arriva al sacrificio umano per difendere l’onore, magari sotto l’influenza di antichi riti tribali, visto che nessuna religione lo giustifica.
Un collega di Alì, che si chiama anche lui Abbas ma non ha alcun legame di parentela con la famiglia di Saman, ci spiega che «i figli sono tenuti al rispetto dei genitori ma vale anche per i genitori. Anche se nelle nostre campagne ci sono ancora persone molto dure, ormai non c’è famiglia che non abbia un emigrante e muoversi fa cambiare le cose. Mia cugina a Londra ha conseguito il Phd e ha sposato un ragazzo tedesco, seppur condividendo la sua decisione con i genitori».

Nell’azienda agricola di Pierluigi e Matteo Zarantonello, Alì e i suoi colleghi sono arrivati all’inizio degli anni Duemila. Vent’anni dopo, non si può parlare di una vera integrazione, ma sicuramente verso i datori di lavoro si è costruito un rapporto profondo, magari un po’ paternalistico, ma che è l’unico vero collante psicologico e culturale con l’Italia. Nessuno degli operai asiatici si sognerebbe di contestare una parola di “capo Gigi”. Pierluigi Zarantonello è un omone di settantatre primavere, con la pelle abbrustolita dal sole della Bassa, dove le giornate scorrono lente come l’acqua dei canali e l’unico delitto che ci si aspetta è la grandine, che può distruggere l’intero raccolto: anche lui è visibilmente sconvolto dalla vicenda di Saman, che viveva a un tiro di schioppo da queste vigne. «Io ho una figlia che ha otto figli – racconta l’imprenditore – e una storia del genere non riesco neanche a sentirla. Certo, ho conosciuto Shabbar, perchè ha lavorato per poco tempo anche nella mia azienda, ma era irruento. Dai Bartoli, però si era ambientato bene e gestiva tutto lui».

Pierluigi è un cattolico tutto d’un pezzo, in casa ha una gigantografia di Giuseppe Dossetti e si infuria per le strumentalizzazioni xenofobe di queste ore. «Noi aslavora (si lavora, ndr) ma per il nostro benessere dobbiamo dire grazie anche ai lavoratori stranieri, visto che gli italiani non vogliono venire nei campi». La terra grassa del Parmigiano Reggiano, del cocomero Igp e dell’industria metallurgica non è sempre stata così ricca. Qui, una volta incontravi solo paludi malsane. Il fascismo portò la bonifica, ma passò un mezzo secolo prima che l’agroindustria riempisse le tasche a tutti. Anzi, per decenni, le madri e le nonne di Novellara furono costrette a emigrare ogni estate nelle risaie piemontesi, con la differenza che le mondine non le uccidevano per il disonore e, anzi, fu proprio con i loro scioperi che il sindacato strappò il contratto di otto ore. Insomma, Saman muore in una terra che ha una grande cultura del lavoro e dei diritti. «La sua morte andava prevenuta ma adesso nessuno osi – sbotta “capo Gigi” – scaricarla sui pachistani, perché questa è una tragedia dell’ignoranza che non ha nazionalità. Ci siamo dimenticati che all’inizio del Novecento, nelle campagne italiane si facevano sposare ai bovari le figlie illegittime dei padroni ed era ancora praticato l’incesto?».

La cultura è anche la leva con cui il centro culturale islamico “Vision” di Campagnola cerca di spezzare l’isolamento delle famiglie indo-pachistane, che rappresentano lil 50% degli stranieri a Novellara. «Veniamo dalle province agricole del Punjab – ci racconta uno dei coordinatori del centro, Waseem Sarwar, 28 anni – come Gujkat, Mandi Bahauddin (da dove provengono gli Abbas) e Sialkot, ma da noi le donne studiano e non stanno chiuse in casa. Una volta emigrati, al contrario, ci si chiude e le tradizioni diventano un motivo di isolamento. Si arriva al paradosso di strumentalizzare la religione per sostenere comportamenti arcaici, ma ricordiamo che Maometto si è espresso più volte contro il matrimonio forzato». Secondo il giovane, il brodo di coltura del caso Saman è dunque il senso di solitudine in cui vivono molti migranti, che li risucchia nelle logiche del clan. «La nostra cultura non prevede che la donna lavori, è vero – spiega –, tuttavia in altri Paesi, come la Gran Bretagna, le ragazze hanno una libertà maggiore di quella di cui godono qui. Purtroppo, è un problema italiano e ve lo dice un pachistano che ha scelto di emigrare qui, lavora qui e farà crescere suo figlio in Italia».

Non c’è alcuna acrimonia nelle sue parole, ma tanta preoccupazione per il fuoco che cova sotto la cenere: «Il matrimonio combinato non avviene come nel caso di Saman, cui sarebbe stato imposto: mia sorella ha rifiutato una proposta di mio padre e qualche tempo dopo ha sposato un altro giovane pachistano, sempre passando attraverso la mediazione della famiglia. Da noi tutta la struttura sociale è famigliare e il matrimonio combinato tra giovani di buona famiglia – spesso anche tra parenti – riduce i divorzi e tiene unite le famiglie. Per noi è un istituto condiviso dalla maggioranza dei pachistani. Solitamente, poi, sono i giovani che fanno sapere ai genitori chi vorrebbero sposare…». Diverso il discorso dell’onore: «Può succedere in alcune famiglie che il rifiuto della ragazza o un comportamento disonorevole provochi una vergogna cocente che i parenti amplificano. Se tua figlia si comporta male, rischi di non poter più prendere la parola nel tuo villaggio. Questo non giustifica nulla, ma aiuta a capire dove possa aver avuto origine la tragedia. Nell’ignoranza».