Agorà

Il caso. Warburg fra memoria e forme perturbanti

Maurizio Cecchetti martedì 30 gennaio 2024

Aby Warburg in un pueblo 1896

L’attuale voracità di immagini viene da lontano, secondo Joan Fontcuberta comincia in Mesopotamia tremila anni fa e continua fino a noi, avendo nel tardo medioevo, con la nascita della stampa, una incentivazione che, considerata oggi, nella “civiltà delle immagini” vive una sorta di bulimia necessaria; sembra quasi un pasto dove il cannibalismo spolpa avidamente il corpo della sua stessa divinità. L’iconofagia, di cui Fontcuberta parla verso la fine del libro edito da Giunti a corredo di una mostra tenutasi agli Uffizi fino a metà del dicembre scorso, è l’ultimo stadio di una ossessione che in realtà aveva colpito, fino a trasformarsi in agente patogeno, il più famoso e visionario studioso delle immagini a cavallo fra Otto e Novecento, Aby Warburg. Il monumentale volume Camere con vista, edito con la collaborazione del Kunsthistorisches Institut in Florenz (pagine 384, euro 40) e curato da un nutrito staff si studiosi per approfondire i temi sollecitati dalla mostra che ha chiuso la stagione di Eike D. Schmidt come direttore delle Gallerie degli Uffizi, somma oltre cinquanta contributi saggistici per sviscerare il lavoro di Warburg dapprima presso l’Istituto di Storia dell’arte tedesco di Firenze e poi, soprattutto dopo gli anni vissuti dentro la clinica psichiatrica, con la costruzione dell’Atlante della memoria Mnemosyne, il cui nome era inciso all’ingresso della Biblioteca Warburg.

Se nel 1878 Pasquale Villari commentava sconsolato «Firenze non è più quella di una volta», in realtà Fulvio Conti osserva che Villari sembra prendere un abbaglio se è vero che dieci anni dopo, Aby Warburg «trovò una città interessata dall’ennesima fase di espansione edilizia, da importanti processi di ammodernamento delle infrastrutture urbane e di “risanamento” del centro, da una lenta ma significativa ripresa economica». Progressi materiali, con sviluppi però anche sul fronte culturale. Così nel 1887 l’inaugurazione della nuova facciata di Snta Maria del Fiore fu festeggiata con balli e luminarie. Warburg in quegli anni studiava gli archivi fiorentini, che gli daranno poi le basi per i saggi sulla “sopravvivenza dell’antico”, per esempio col ritrovamento nell’Archivio di Stato delle “ultime volontà” del banchiere dei Medici Francesco Sassetti datate 1488, di cui darà notizia in una conferenza tenuta ad Amburgo nel 1901, come ricordano nel loro saggio Hannah Baader e Costanza Caraffa.

Da quella conferenza Warburg darà il via al saggio sul “libro segreto” del Sassetti nel 1907 Le ultime volontà di Francesco Sassetti. Ma la vita di Warburg e la moglie Mary non è quella di un semplice e oscuro studioso, egli, con la moglie Mary, è parte di quella borghesia intellettuale straniera che sperimenta la vita cittadina seguendo «sia i ricevimenti patriottici, le feste, i balli e il calcio fiorentino, sia i moti del 1898» innescati dall’inasprimento del prezzo del grano che aveva fatto lievitare quello del pane, come ricorda Lunarita Sterpetti: la vignetta satirica la Miseria: Curiosa! Fra tanti arresti dimenticano di arrestare me, pubblicata dal giornale “L’Asino”, svela il clima di rivolta contro uno Stato che invece di ridurre il disagio del popolo arresta i dimostranti e si impegna a sequestrare le immagini che denunciano il male sociale e che, come nota Sterpetti, erano interessanti per Warburg, che ritrovò questo tema anche nelle iconografie rinascimentali e ne tenne poi conto per le tavole di Mnemosyne. L’atlante warburghiano era il centro della mostra tenuta agli Uffizi nei mesi scorsi: si tratta di una elaborazione e uno sviluppo di quanto lo storico tedesco aveva appreso studiando con filologi come Usener e gli esponenti del metodo storico- critico e storico religioso di fine Ottocento.

Il comparativismo applicato a un’antropologia-etnologia con la quale Warburg cercava di ritrovare gli archetipi del paganesimo “attuale” – a partire dalla convinzione che «i “primitivi” del Nordamerica o dell’Africa potessero offrire la chiave d’accesso ai primordi della civiltà europea» come osservò Ulrich Raulff –, secondo Gombrich, che sullo storico tedesco ha scritto anche una biografia intellettuale, andava preso con le molle: «Non credo sia opportuno esagerare l’originalità di Warburg etnologo ». Di questa inclinazione si possono trovare indizi anche nell’attività fotografica che lo storico tedesco praticò nel 1895-1896 durante il viaggio in America, nel New Messico, durante il quale scoprì i rituali delle tribù pueblo, carpendo loro una vasta documentazione fotografica. Ho scritto carpendo perché questi popoli indigeni provavano verso la macchina fotografica una diffidenza che sfociava in una forma di istintivo timore perché credevano che la fotografia potesse rubare loro l’anima.

In una immagine Warburg tiene stretto per un braccio uno di loro che faceva resistenza a essere fotografato: dieci anni fa questa fotografia fu la causa di una polemica contro l’università del Colorado che aveva organizzato una mostra sul viaggio in America di Warburg (nel 1998 era stato pubblicato un libro che raccoglieva tutte le fotografie), al punto che le proteste costrinsero gli organizzatori a cancellare l’iniziativa ancor prima di averla varata. Questo episodio però ci dice qual-cosa che non è poi così lontano da Warburg, tanto che ci si potrebbe chiedere fino a che punto in quel “timore sacro” non vi fosse anche una esperienza dello stesso storico tedesco. Come scrisse anni fa Kurt Forster, «in ogni oggetto storico che esaminò egli cercò, alla fine, di leggere l’opera del fato». Warburg sentiva che il processo di civilizzazione aveva anche la responsabilità di aver cancellato le forme perturbanti sopravvissute come traccia mnestica delle più remote esperienze dell’uomo, oggi ridotte a simbolo o a immagine sublimati di un gesto o di un sentire arcaico poi ritualizzato.

Dopo aver tenuto nella clinica svizzera di Binswanger la celebre conferenza sul “rituale del serpente” cui aveva assistito durante il soggiorno in America nella tribù Pueblo, concluse che la vitalità del simbolo intrinseca alle culture pagane, era stata uccisa dalla modernità a noi più vicina, quella che ha eletto a suo idolo la tecnica: «La nostra età tecnologica non ha bisogno del serpente per spiegare e comprendere il fulmine». Ne discende che il massimo di desacralizzazione della società occidentale è incarnata da una delle sue più grandi scoperte, l’energia elettrica: «Il fulmine imprigionato nel filo – elettricità catturata – ha prodotto una civiltà che fa piazza pulita del paganesimo». La tecnologia, dunque, è il carnefice del paganesimo. Terminata la conferenza che avrebbe dovuto dimostrare la riabilitazione del suo stato di salute dopo la caduta maniaco-depressiva, Warburg scrisse al suo fedele collaboratore Fritz Saxl di non rivedere il testo in vista di una pubblicazione perché considerava il risultato tutto da rifare. Nelle culture primitive il fulmine quando scocca viene immediatamente pensato come una ierofania, negativa o positiva a seconda di quali siano i suoi effetti.

E per Warburg? Si deve ricordare quanto scrisse Nietzsche nella Gaia scienza – che Warburg aveva letto, essendo il filosofo una delle figure, assieme a Freud, con cui si misurò continuamente –, a proposito del rapporto fra salute e pensiero: «Per uno psicologo poche questioni sono così allettanti e nel caso che lui stesso si ammali porta con sé, nella malattia, tutta la sua curiosità scientifica ». Indubbiamente, la crisi nella quale Warburg cominciò a somatizzare gli effetti devastanti della Grande Guerra sulla sua psiche, ovvero dell’evento che minò alla radice la cultura europea, si manifestò fin dal 1918 quando minacciò di uccidere se stesso e la sua famiglia. I cinque anni passati nella clinica svizzera di Binswanger, il Sanatorium Bellevue di Kreuzlingen, lo avevano in parte ristabilito, pur lasciando cicatrici. Sullo sforzo di pensare la realtà si può leggere anche il volume di Maurizio Ghelardi, Aby Warburg, uno spazio per il pensiero (Carocci).

Oggi, non si devono nascondere certe tendenze ossessive che si manifestano, a mio parere, proprio nella stessa metodologia con cui compose le 79 tavole dell’incompiuto atlante che stava organizzando con l’aiuto di Saxl e Gertrude Bing, quando improvvisamente morì nel 1929. Una sorta di comparativismocollage di immagini che agisce per analogia. Che lo storico fosse “guarito con difetto” lo disse lo psichiatra Emil Kraepelin a cui si deve, probabilmente, l’uscita di Warburg dalla clinica perché, al contrario della diagnosi di schizofrenia (da cui difficilmente “si ritorna”) sostenuta fino al 1921 da Binswanger sulla base delle idee di Hans Berger, giudicò invece che il paziente fosse afflitto da una crisi maniaco-depressiva (poi a distanza di tempo accolta anche da Binswanger). Warburg ci ha dato una grande opera visionaria, come a suo modo ha fatto Nietzsche, ma resta da indagare quel rapporto fra “salute e pensiero” che il filosofo aveva messo in luce.

Warburg è anche questo: il paganesimo rappresenta per lui un richiamo, anche violento, alla verità della vita, quella dei greci che ci hanno lasciato la scultura arcaica, quella per usare la coppia nietzscheana, di Apollo e Dioniso, dove la bellezza ha in sé sempre il tragico, e il tragico è perenne, infinita, caduta nell’abisso di ciò che muove il mondo dopo la “morte di Dio”. Non si deve dimenticare che l’iconologia, disciplina delle immagini la cui invenzione si attribuisce a Warburg, in realtà è frutto di una razionalizzazione metodologica condotta da Erwin Panofsky (nel 1966 Gombrich osservò che «Come Marx forse non fu marxista e Nietzschenon fu nietzscheano, così in fondo Warburg non fu warburghiano. Chi si attiene ai suoi scritti vi troverà ben poco di iconografico »). Quella di Warburg, nella sua essenza, è una scienza rabdomantica e divinatrice se vogliamo; una forma di demitizzazione e di svelamento di ciò che è nascosto e segreto, con una anima profonda che probabilmente Warburg, da ebreo non praticante, derivò dallo studio del Talmud.