Agorà

Antologia. Vive nella letteratura la memoria della Shoah

Alessandro Zaccuri venerdì 15 gennaio 2021

Prigionieri di un campo di concentramento nazista

Di che cosa è memoria la memoria della letteratura? La domanda può essere formulata anche in altri termini, per esempio chiedendosi che cosa esattamente ricordi un romanzo oppure una poesia. E postulando, in prima istanza, che il ricordo del romanzo non coincida mai del tutto con quello della poesia. In quest’ultimo caso, infatti, l’elemento personale gioca comunque un ruolo preponderante. Sono le sensazioni a trovare espressione nel verso, e non tanto il resoconto dei fatti, mentre viene istintivo assegnare alla prosa un differente grado di veridicità. Se qualcuno la racconta, insomma, quella storia dev’essere accaduta, e possibilmente nella maniera esatta in cui ci viene riferita. L’invenzione non è esclusa del tutto, ma non può mai sconfinare nella mistificazione. Altrimenti, – di nuovo – quale memoria sarebbe mai la memoria della letteratura? A dispetto delle apparenze, non si tratta affatto di una questione teorica. Per rendersene conto basta provare a connotare in modo più specifico il temine “memoria”, riferendolo a quella che ormai è considerata la memoria per eccellenza: la ricorrenza del 27 gennaio, la liberazione di Auschwitz, la Shoah.

Prima ancora dell’efficacia della letteratura, lo scandalo dei campi di sterminio ha messo in discussione la liceità stessa del fare letteratura. Così avrebbe voluto l’interdetto pronunciato da Theodor W. Adorno, secondo il quale l’esistenza delle camere a gas e dei forni crematori avrebbe impedito che si tornasse a comporre versi. Il che non è accaduto, come sappiamo, anche se gli esiti di questa persistenza della letteratura si articolano una serie di tipologie spesso assai discontinue tra loro: c’è spazio per il capolavoro, certo, ma l’insidia della banalizzazione e dell’accomodamento narrativo non è mai completamente fugata. Motivo di più per esercitare il diritto-dovere della critica, dunque. Motivo di più per affrontare l’onere di una scelta motivata, anche attraverso lo strumento dell’antologia. È questo il percorso intrapreso dall’italianista Giovanni Tesio, studioso fra i più attenti dell’opera di Primo Levi (andrà ricordato, almeno, il libro-conversazione Io che vi parlo, uscito nel 2016 da Einaudi).​​

Proprio a partire dall’attenzione riservata all’autore di Se questo è un uomo Tesio ha sviluppato una riflessione ancora più ampia, che chiama in causa gli interrogativi che abbiamo fin qui provato a riassumere: se la letteratura possa farsi memoria, e di che cosa eventualmente, in quale modo. Un primo tentativo di risposta – o, meglio, un primo ventaglio di risposte – era stato offerto un paio di anni da Nell’abisso del lager, l’antologia poetica pubblicata da Interlinea nella quale Tesio proponeva una distinzione di massima tra i testi «dal lager» e «del lager»: composti dai sopravvissuti i primi, ispirati a un’esperienza non direttamente vissuta i secondi. Un diverso criterio sorregge ora la struttura di Nel buco nero di Auschwitz (pagine 336, euro 20,00), curato da Tesio per il medesimo editore e interamente dedicato alle «voci narrative sulla Shoah». Non solo romanzi (che pure non mancano), ma anche e specialmente diari, lettere, memoriali, testimonianze orali e pièces teatrali.

Al di là della transizione dalla poesia alla prosa, è la funzione della memoria a essere posta al centro dell’indagine, in un continuo lavoro di verifica tra le ragioni del racconto e quelle della ricerca storiografica. In questo senso, la decisione di radunare i brani per genere (riprendendo e in parte modificando la metodologia suggerita da Elena Rondena in un libro del 2013, La letteratura concentrazionaria) significa anzitutto ammettere la coesistenza di racconti non sempre coincidenti, ciascuno dei quali è però contraddistinto da una necessità profonda. Tesio, d’altro canto, è convinto che la memoria sia la materia fondamentale della letteratura novecentesca, che si regge sulla contrapposizione latente tra le reminiscenze involontarie della Recherche proustiana e l’ideologica cancellazione del passato operata dal Grande Fratello di Orwell. Fra questi due estremi, si legge in uno dei saggi riuniti di recente da Tesio in La luce delle parole (Interlinea, pagine 326, euro 25,00), interviene il trauma del lager, nel contempo «cattedrale di un ricordo che […] investe la memoria di un valore assoluto» e «negazione della memoria come metodo di destituzione umana».

Come già accadeva in Nell’abisso del lager, anche in Nel buco nero di Auschwitz pagine celeberrime si alternano ad altre meno conosciute o addirittura rare. Sono presenti gli autori e i titoli irrinunciabili, da Anne Frank allo stesso Primo Levi, senza dimenticare Etty Hillesum, Jean Améry, Elie Wiesel e Jorge Semprún, ma vengono valorizzate anche testimonianze non altrettanto note, come quelle della scrittrice francese Charlotte Delbo e di don Paolo Liggeri, il sacerdote milanese finito a Dachau per la sua militanza nella Resistenza. Tesio si spinge molto vicino a noi, specie per quanto riguarda il versante del romanzo, proponendo stralci dai libri di David Grossman, di Helena Janeczek e di Alberto Caviglia, autore lo scorso anno dell’anticonvenzionale Olocaustico. Fra i testi più antichi è invece da segnalare il brano tratto da Mauthausen bivacco della morte di Bruno Vasari, pubblicato a Milano già nel 1945. Ma la chiave di lettura più vitale è senza dubbio quella che insiste sulle figure e sulle voci dell’infanzia, alle quali Tesio affida il compito ideale di essere «una porta (aperta) verso il futuro». Che è poi la missione della memoria e, quindi, della letteratura.