Agorà

HILLESUM. La seconda vita di Etty

Marina Corradi lunedì 25 novembre 2013
Il 30 novembre saranno settant’anni dalla morte di Etty Hillesum, ebrea olandese di 29 anni vittima dell’Olocausto a Auschwitz. Settant’anni non sono pochi per la memoria degli uomini, e molti grandi nomi, dopo un tale lasso di tempo, sono dimenticati. Etty Hillesum invece, di cui quasi niente si sapeva nel’immediato dopoguerra, conosce con il suo Diario e le sue Lettere una sorta di nuova vita; capace com’è di sedurre e affascinare lettori di oggi, che anagraficamente potrebbero essere suoi nipoti e che pure trovano in lei, singolarmente, una contemporanea, con le stesse domande e le stesse speranze nel cuore. Infatti da poco Adelphi ha pubblicato la edizione integrale del Diario e in questi giorni esce l’integrale delle Lettere, mentre fino a ora in Italia si erano lette solo edizioni parziali.Già sufficienti, comunque, per suscitare con un passaparola fra lettori, e più ancora lettrici, quello che si potrebbe definire un innamoramento per la Hillesum. Nata nel 1914 in Olanda, Etty cresce in una famiglia ebrea borghese, colta e non praticante. Nel 1941, quando inizia a scrivere il suo Diario, è una studentessa universitaria vivace, innamorata di Rilke e Dostoevskij, dimentica dei precetti ebraici e padrona, come lei stessa scrive, «di una vita libera e sregolata». Così che le prime pagine del Diario possono scandalizzare: Etty si innamora di uomini diversi, trascinata da una forte sensualità. Annota: «Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto prendermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo. Ero troppo sensuale, vorrei dire troppo “possessiva”: provavo un desiderio troppo fisico per le cose che mi piacevano, le volevo avere. È per questo che sentivo sempre quel doloroso insaziabile desiderio, quella nostalgia per un qualcosa che mi appariva irraggiungibile». A ventisette anni però il suo disordine interiore è tale che si rivolge a uno psicoanalista pure ebreo e allievo di Jung, Julius Spier; personaggio singolare di cui Etty s’innamora, e che tuttavia riesce a trovare il bandolo della matassa che avviluppa la giovane paziente. «Occorre avere il coraggio di nominare il nome di Dio», insegna Spier; e Etty, sbalordita, vorrebbe domandare: «Lei prega? E cosa dice, quando prega?». Tanto la frequentazione di Dio è lontana per lei che, rimasta incinta mentre la persecuzione avanza, scrive con aspro nichilismo: «Voglio risparmiarti il dolore. Rimarrai nella condizione protetta di chi non è ancora nato e sii riconoscente, essere in divenire...». Appare ancora più straordinario dunque ciò che si fa strada nel Diario e poi prende corpo nelle Lettere. Nell’Olanda occupata dai nazisti, mentre agli ebrei è imposta la stella gialla, questa figlia del popolo ebraico subisce una prodigiosa metamorfosi. Quel Dio sconosciuto le diventa familiare e vicino, e non solo il Dio dell’Antico Testamento, ma quello del Nuovo, e le lettere di Paolo. È leggendo l’inno alla carità di Paolo nella Prima lettera ai Corinzi, che Etty una sera nella sua stanza cade in ginocchio. Il cambiamento germina silenzioso, e nel Diario se ne intravede il cammino carsico. È proprio la carità, una carità profonda e misteriosa, che si impadronisce di Etty, mentre la storia prende il suo spaventoso cammino. Ha l’occasione di fuggire, ma resta: vuole, dice, condividere il destino del suo popolo. Vuole esserne gli occhi, e la voce. Ed è una lucida e tagliente cronista quella che scrive dal campo di raccolta olandese di Westerbork, dove è prima volontaria e poi reclusa. Anticamera di Auschwitz, il lager nel Drenthe si affolla di diecimila deportati in condizioni miserabili. Dai treni sbarcano, catturati nei rastrellamenti, giovani, madri con bambini, vecchi tremanti. Di lì a qualche mese, dopo una permanenza nelle baracche gremite, ripartiranno per la Polonia, su treni dalle portiere inchiodate. I prigionieri non sanno cosa li attende a Auschwitz, ma Etty non ha alcuna illusione: «Vogliono il nostro annientamento», scrive. Eppure nella minaccia sempre più incombente si allarga in Etty, invece dell’odio, una sovrana certezza di un Dio buono. «Si può benissimo credere nei miracoli nel ventesimo secolo. E io credo in Dio, anche se fra poco i pidocchi mi divoreranno in Polonia», scrive, e pare, nel fango di Westerbork, una sfida. Il segreto che va scoprendo nelle baracche, dentro al nuovo deserto del suo popolo, è quello di una inesausta carità. Nella foresta buia della paura e dell’odio, non dimentica ciò che ha scoperto in sé: «Un pozzo molto profondo è dentro di me, e Dio c’è in quel pozzo. A volte il pozzo è coperto da sabbia e sassi. Allora bisogna di nuovo che lo dissotterri». E dice di volere, in quell’agonia che madri, bambini e vecchi attraversano, in cammino per Auschwitz, offrire «un tetto a Dio» – un angolo a un Dio quasi mendicante, fra volti di uomini feroci o annientati. Anche Etty infine salirà su uno di quei lunghi treni merci che fischiano dolenti alla partenza, nella brughiera del Drenthe. Scrive su una cartolina: «Ho aperto a caso la Bibbia. Si è spalancata su un salmo: “Il Signore è il mio baluardo”».La nuova edizione integrale delle Lettere ci restituisce, di quel giorno, la testimonianza di un amico che assiste alla partenza. E che descrive Etty dapprima, alla notizia, tramortita e muta; ma dopo poco di nuovo come interiormente confortata, e capace di una parola e di un sorriso ai suoi miseri compagni di viaggio. Così intensamente umana, anche in questa ultima ora, nella sua prima reazione; ma così straordinariamente  fiduciosa, appena dopo – come se una immensa certezza le fosse stata donata.