Yvonne Sciò: «Io regista dalla parte delle donne»
L’attrice e produttrice presenta alla Settimana dei Diritti Umaniche si apre a Rovigo il documentario «Womeness» in cui intervista cinque donne che hanno lottato

La forza delle donne apre la Settimana dei Diritti Umani a Rovigo, il grande festival multidisciplinare che si svolgerà dal 14 al 20 luglio, dedicato alla promozione dei diritti umani attraverso arte e cultura. Promossa da un’ampia rete di associazioni, enti locali, cooperative sociali e sindacati confederali, con Avvenire media partner, la rassegna propone un fitto programma di mostre, dibattiti, proiezioni e spettacoli.
Grande attesa per la sera del 14 luglio, alle ore 21.30 alla Gran Guardia, con la proiezione del film Womeness, alla presenza della regista Yvonne Sciò che parlerà al pubblico della sua esperienza. Il terzo docu-film scritto e diretto dall’attrice e regista racconta la forza e l’audace femminilità di cinque donne straordinarie: la scrittrice Dacia Maraini, la politica Emma Bonino, la compositrice e cantante iraniana Sussan Deyhim, l’artista verbo-visiva Tomaso Binga, e la pittrice giapponese Setsuko Klossowska de Rola, moglie del pittore Balthus.
Attrice e regista con una formazione internazionale (Italia, Francia, Spagna, Stati Uniti), Yvonne Sciò ha raggiunto la popolarità in Italia nei primi anni ’90, partendo da un noto spot pubblicitario dove sfoggiava la sua freschezza e la sua chioma rossa, per arrivare a Non è la Rai. Ma ha dimostrato le sue doti di attrice in 45 film, dall’esordio con Stasera a casa di Alice (1990) di Carlo Verdone a La Masseria delle allodole (2006) dei fratelli Taviani, fino a produzioni televisive americane come The Nanny, La Femme Nikita e Boy Meets World. Ora vive in Italia, dove ha intrapreso una nuova fase della sua carriera come regista e produttrice. Womeness è la sua terza regia, dopo Roxanne Lowit Magic Moments (biopic sulla fotografa Roxanne Lowit) e Seven Women, documentario su sette donne eccezionali. Entrambi i lavori sono stati trasmessi su Sky Arte e Rai Storia, e venduti in oltre 50 Paesi.
Yvonne Sciò, tre film da regista, tutti sulle donne. Come mai?
«Sono anni che mi occupo di tematiche femminili, sono ossessionata (in senso buono). Lotto perché i progetti più piccoli abbiano visibilità. Di recente ho rivisto una mia intervista da giovanissima, fatta da Catherine Spaak. Le dissi con voce timida: “Mi interessano le storie del femminismo”. Ero molto educata, molto borghese. Ma era già lì, dentro di me».
Lei è cresciuta in un ambito femminile, un collegio di suore. Che rapporto ha con la fede oggi?
«Sono credente, anche se non pratico regolarmente. Amo il bello, adoro San Luigi dei Francesi a Roma dove mi fermo sempre a guardare Caravaggio. Amo le chiese, piccole o grandi, per il silenzio, la spiritualità, il loro peso nella storia. Giro in bici, appena vedo una chiesa entro. Vicino casa ho una cappella di suore: ogni tanto vado a pregare. Ti dà un senso di forza».
Oggi lei è regista e produttrice. Come è arrivata a questo ruolo?
«La vita ti forma. Ti scuote, ti rimette in discussione. Sono una donna sensibile, ironica, attenta. Non ho fatto l’università, non avevo soldi, ho sempre lavorato. Ho incontrato grandi donne, musicisti, fotografi. Non è stato un percorso programmato, ma una serie di incontri. Questo film è dedicato a loro. Io ascolto».
Lei ha avuto grande successo fin da giovane. Ha subito pregiudizi e cosa ricorda di quel periodo?
«A 16 anni vivevo già da sola, i miei litigavano. Sono sempre stata indipendente. Ma restano fragilità, insicurezze. In Spagna ho fatto 30-40 pubblicità. Non è la Rai non mi ha “scoperto”: avevo già recitato con Proietti, la Merlini, Verdone. Mi dicevano “non fare tv”, ma rispondevo: “Nanni Moretti non mi chiamerà mai”. Spesso pensavano che siccome ero bellina non potessi essere brava. Invece la tv non è limitante. Boncompagni capì la mia intelligenza. Diceva: “Sei diversa”. Tutti siamo speciali. Volevo crearmi una vita mia, sentirmi libera».
A un certo punto lei scompare dall’Italia. La vera svolta è arrivata negli Stati Uniti, dove ha vissuto per molti anni.
«In Italia ero molto conosciuta, ma mi sembrava una gabbia. In America ho fatto la cameriera, andavo ai provini con cento persone. Mi ha fatto bene: mi ha dato umiltà. Lì avevo una grande agente, una donna brillante. L’America è spietata, sì, ma anche piena di possibilità. Ho imparato da mia madre, una pittrice americana. Mi dava piatti vuoti a pranzo e mi diceva: “Cosa vedi? Usa la fantasia”. Era il suo modo per farmi capire che possiamo immaginare ciò che gli altri non vedono. Negli Usa ho anche lavorato in una produzione di Spielberg. In Italia non sarebbe successo. Ma negli States ti senti sola: ero sempre con la valigia, un’anima in pena».
Lei è anche madre affettuosa e orgogliosa.
«Il mio matrimonio è stato disastroso, ma sono felice di aver avuto mia figlia, che ho cresciuto da sola. Oggi ha 17 anni e abbiamo un rapporto speciale. Le mie due grandi passioni sono lei e il lavoro».
“Womeness” è prodotto dalla sua casa, Magic Moments Films. Ancora una volta, il centro sono le donne. Perché?
«Raccontare le donne e la loro forza è la mia missione. Crescendo mia figlia da sola, ho cercato di mostrare una forza che in realtà non sentivo mia. Oggi, con l’età, quella forza l’ho trovata. Womeness non è un film politico, non sono né di destra né di sinistra. Racconto l’essere umano».
Di cosa parla “Womeness”?
«Womeness è il mio terzo progetto da regista. Attraverso la voce delle protagoniste racconto cinque donne del nostro tempo. Dacia Maraini, Tomaso Binga ed Emma Bonino riflettono sulla loro infanzia, le battaglie per i diritti civili, e sulla condizione femminile di ieri e di oggi. Tomaso Binga, ad esempio, prende un nome maschile per contestare il potere degli uomini, e usa il corpo come strumento di parola. Dacia ed Emma ci ricordano i diritti conquistati dopo secoli di esclusione».
E le protagoniste internazionali?
«Mentre in Italia si conquistavano diritti, in altri luoghi venivano cancellati. Sussan Deyhim, cantante e performer iraniana, racconta l’esilio forzato dopo la rivoluzione in Iran. Non può più tornare nel suo Paese perché è donna e artista. Parla anche della sua collaborazione con Shirin Neshat e con Richard Horowitz, suo compagno e musicista premiato con un Golden Globe, scomparso durante la post-produzione del film. Infine, Setsuko Klossowska de Rola mi ha regalato un racconto delicato e potente: da giovane seguì Balthus in Italia, contro ogni pregiudizio. Siamo tornate insieme a Villa Medici, a Roma, a ripercorrere i momenti chiave della sua vita. Dal punto di vista narrativo, il film è accompagnato da materiali d’archivio straordinari dell’Archivio Storico Luce, che ha sostenuto il progetto e che ringrazio».
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