La Scala fa dire a Verdi e Wagner stop alla guerra
I lavoratori scaligeri hanno chiesto al sovrintendente Ortombina di incorniciare il wagneriano "Siegfried" con questo grido silenzioso: l'eroe che conosce la paura solo quando impara ad

«Cessate il fuoco». Scritta azzurra su fondo nero. Mezzeluci in sala. I palchetti illuminati. Rosso Scala. Rosso sangue. «Stop the war». Stesso colore, azzurro su nero. Poi la frase di Giuseppe Verdi – anche se di lì a poco la musica che invaderà la sala sarà quella di Richard Wagner, anche se il tedesco non ha combattuto (a suon di musica) per la libertà del suo popolo, a differenza del nostro «padre della patria». Ancora azzurro su nero, l’invocazione di Simon Boccanegra, «… e vo’ gridando: pace! E vo’ gridando: amor!». Grido inascoltato, oggi come ieri, quello del doge raccontato, in musica, da Verdi. Così il Teatro alla Scala, prima che la musica ipnotica e dilatata di Wagner, tirasse dentro per cinque ore nel racconto delle avventure di Siegfried – avventure di un uomo che cerca la sua identità e la sua libertà – così il Teatro alla Scala ha voluto, ancora una volta dire la sua sull’attualità. Certo, ogni giorno, lo fa la musica, capace, ieri come oggi, di parlare al nostro presente con una forza che è culturale e allo stesso tempo politica, senza che le sia messo in testa uno slogan. Un presente di guerra in Medioriente e in Ucraina, in Myanmar e in tante (troppe) parti del mondo. Soprattutto in Palestina. Hanno voluto dire i lavoratori scaligeri chiedendo al sovrintendente Fortunato Ortombina di incorniciare il wagneriano Siegfried con questo grido silenzioso. Rumoroso, invece, quello andato in scena, sempre prima dell’inizio dell’opera, sulla piazza. Anche questo sotto l’occhio vigile del sovrintendente. Bandiere della Palestina. Ma anche dei sindacati che hanno voluto ancora una volta accendere le luci sul licenziamento di una maschera che ha lasciato il posto che doveva presidiare per affacciarsi in sala, srotolare uno striscione e gridare «Palestina libera» durante un concerto privato in occasione dell’incontro annuale dell'Asian development bank al quale era presente anche la premier Meloni. Fuori le proteste. Dentro un applauso carico di affetto e dolore. «E vo’ gridando: pace! E vo’ gridando: amor!» dice Boccanegra.
Siegfried, invece, combatte. Uccide il drago (che è la bestia nella quale si è trasformato grazie all’elmo magico il gigante Fafner), uccide Mime, il nano che lo ha allevato solo per fargli conquistare l’anello, il Ring forgiato con l’oro che un altro nano, Alberich, ha rubato alle figlie del Reno. Impresa, quella di Siegfried, che riesce perché un uccellino gli parla e gli svela le trame dei suoi nemici. Una trama da fantasy, anni prima di Harry Potter e de Il Signore degli anelli o di Narnia. E David McVicar ha scelto questa strada, quella del racconto fantasy, appunto, per il suo Der Ring des Nibelungen alla Scala. Una commedia grottesca il primo atto, con lo strepitoso Mime di Wolfgang Ablingher-Sperrhacke che tira la pasta e poi si infila una pellicia leopardata, un secondo atto dark con la bellissima foresta fatta di enormi donne-albero (le scene sono dello stesso McVicar e di Hannah Postlethwaite) dove Siegfried sconfigge il drago, un terzo atto riuscito (toccante la scan di Erda e Wotan) sino al duetto finale che sembra solo imbastito. Certo c’è la musica. E che quel pugno allo stomaco che ti prende vedendo che Siegfried conosce la paura solo quando impara ad amare. Vertigine che Wagner mette nella sua musica dilatata e sospesa che Simone Young dirige con gusto tutto italiano. E che Klaus Florian Vogt sostiene con la sua voce di cristallo, apparentemente lontana dall’idea di eroe wagneriano, ma che rende Siegfried umanissimo. Impeccabile la Brünhilde di Camilla Nylund, appassionato e commovente il Wanderer (Wotran) di Michael Volle.
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