Kohei Igarashi: «L’istante ha il gusto dell’eterno»
Esce oggi “Super Happy Forever - La ragazza dal cappello rosso” del regista giapponese: «È una sortadi preghiera con i nostri comuni sentimenti tra amore ed egoismo»

Lo sguardo verso il Cielo. E verso la terra. Grazie a Trent Film arriva oggi finalmente nelle sale italiane, dopo l’apertura delle Giornate degli Autori nella scorsa edizione del Festival di Venezia, Super Happy Forever - La ragazza dal cappello rosso di Kohei Igarashi. Opera delicata e profonda, il film è un invito a riflettere sulla natura effimera eppure preziosa di ogni attimo, sulla bellezza che si nasconde nell’ordinario e sull’interconnessione delle esistenze. Un film che, come una preghiera silenziosa, non impone una verità, ma si offre come uno sguardo capace di restituire splendore alla fragilità esistenziale.
Kohei Igarashi, lei descrive Super Happy Forever come una sorta di “preghiera”. In che modo l’idea di felicità eterna del titolo convive con la natura finita dell’esistenza?
«In Giappone tutti vanno nei santuari a pregare. In quei momenti, potrei recitare silenziosamente qualcosa come: “Che la mia famiglia sia sempre in salute”. Ma è possibile? No, non lo è. Eppure, pur sapendolo, gli esseri umani continuano a desiderarlo. Ecco, Super Happy Forever non sta dicendo nulla di straordinario, sta esprimendo i nostri sentimenti più ordinari».
Il film affronta l’amore giovane e l’egoismo. Perché ha scelto di affrontare il tema della morte e affidarlo a protagonisti giovani?
«Forse perché amore ed egoismo sono l’essenza stessa della vita, ciò che più ci appare distante dall’idea della fine. L’egoismo, in fondo, è il retroscena invisibile dell’esistenza: ciò che non conosciamo del passato degli altri ci segna, ci influenza, ci determina. È il nostro destino umano. Super happy forever non è un titolo ironico: è la dichiarazione di una verità. Chi non c’è più continua a esistere, intensamente, nella memoria di chi resta, come se non se ne fosse mai andato».
Il suo film sembra sottolineare la bellezza dei piccoli gesti quotidiani.
«Sia che si tratti di film di Hollywood o di cinema d’essai, ciò che alla fine ci commuove sono i momenti più banali. Mani che si toccano, alberi che ondeggiano al vento, un bambino che piange dopo essere caduto. Credo che ciò che conta veramente nel cinema sia lo sguardo che osserva la realtà. Questa attenzione meticolosa per i dettagli – un cappello rosso, uno sguardo rubato – non è un semplice esercizio di stile. È un invito implicito a rallentare, a osservare il mondo con rinnovata meraviglia. È nei gesti minimi e trascurati che si trova la quintessenza della bellezza e della verità umana».
La precarietà e l’incertezza attraversano la storia.
«Naturalmente, è una condizione che riflette la natura umana. Lo dico non perché la vostra cultura sia pregna del cinema italiano come quello di Michelangelo Antonioni. Credo infatti che i film di Antonioni rappresentino la fragilità come la condizione che permette di accedere a una verità più profonda sull’essere umano».
La gentilezza gioca un ruolo sottile ma potente nella narrazione. Come gli atti di gentilezza modellano il percorso dei personaggi?
«Credo che la felicità risieda proprio nell’atto di prendersi cura degli altri. Ogni persona che cammina per strada porta con sé gioie, dolori e una vita. Che si incontrino per caso o meno... potrebbe essere il cielo che hai guardato un giorno, o un mobile abbandonato. Come potresti non custodire gelosamente la prima pietra che tuo figlio neonato, che sta appena imparando a camminare, ti porge dal bordo della strada? In quel momento, penso alla pietra accanto, che non è stata raccolta – anche quella, in un tempo antico, potrebbe aver avuto una storia simile. O nell’avvenire».
C’è una delicata attenzione per i dettagli che altrimenti potrebbero passare inosservati: era un modo intenzionale per invitare gli spettatori a rallentare e guardare più da vicino la vita?
«Non vogliamo esortare il pubblico a fare nulla. Voglio semplicemente mostrare la bellezza che abbiamo scoperto nella vita di ogni giorno, la bellezza della vita stessa».
Nel film sembra che i ricordi siano l’unico modo per recuperare momenti felici, anche se sembrano persi.
«Quando contemplo profondamente il momento della mia nascita, penso che non sono apparso all’improvviso un giorno. Anche dopo la morte, che si abbiano avuto figli o meno, si continua a esistere in questo mondo: il tempo comprende tutto, dall’inizio alla fine, e nulla va perduto: tutto persiste. Proprio per questo ho voluto rappresentare ciò che crediamo perduto come vivo e splendente. Credo che il cinema sia il mezzo più efficace per riportare in vita i morti».
Ricorre spesso il brano Beyond the Sea di Bobby Darin. Che significato ha questa canzone nel panorama emotivo del film?
«La canzone originale è La mer, ma è stata reinterpretata e cantata infinite volte attraverso epoche e luoghi. Penso che sia come le onde. E mentre il testo è triste, l’atmosfera della canzone è luminosa. Non volevamo che questo film fosse solo un film sentimentale e triste. Vorrei che lo spettatore vedendo Super Happy Forever ne esca pieno di speranza ed energia. Il brano, infatti, con la sua dicotomia tra malinconia e vivacità, incarna perfettamente lo spirito del film: la capacità di abbracciare la tristezza senza esserne sopraffatti, trovando in essa la spinta per guardare avanti con rinnovato slancio».
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