Il regista iraniano Rasoulof: «Il cinema è un mezzo di libertà»

Per il cineasta il racconto cinematografico è un atto politicoe i temi della denuncia e della speranza sono strumenti di verità e di lotta
June 3, 2025
Il regista iraniano Rasoulof: «Il cinema è un mezzo di libertà»
Ansa/Jalal Morchidi | Il regista iraniano Mohammad Rasoulof
Nato a Shiraz nel 1972, Mohammad Rasoulof è un regista e sceneggiatore iraniano – premio della Giuria a Cannes e Orso d’Oro a Berlino – conosciuto per la forza e il coraggio con cui ha saputo affrontare temi come la repressione, la libertà individuale e le contraddizioni sociali e politiche del suo Paese. Recentemente il Museo Nazionale del Cinema di Torino gli ha reso omaggio con un’ampia selezione dei suoi film. Il seme del fico sacro, suo ultimo lavoro, è stato premiato a Cannes ed è entrato nella cinquina dei nominati per il miglior film internazionale agli Oscar 2025. Il film è stato realizzato esplorando le tensioni politiche e sociali dell’Iran contemporaneo attraverso uno sguardo intimo e riflessivo, ma non solo, perché nei racconti di Rasoulof uomini e donne si confrontano con un sistema autoritario, sfidando le restrizioni imposte dal potere e ponendo domande cruciali sulla giustizia, la verità e la resistenza; è in questo contesto che il cinema diventa perciò uno strumento di denuncia sociale e politica, ma anche un’occasione di ricerca e conoscenza. Nonostante i successi internazionali, la carriera di Rasoulof è stata infatti segnata da un rapporto difficile con le autorità iraniane: più volte arrestato e messo sotto sorveglianza, il regista ha continuato a pensare e realizzare film che interrogano il concetto di potere, tanto nell’ambito pubblico quanto in quello privato.
Partiamo da qui: come ha lavorato al film non potendo di fatto girare, non avendo i permessi per farlo?
«Ho diretto online. Ero in contatto con la troupe via internet e davo direttive per le riprese a distanza».
Un’attività rischiosa. Cosa l’ha spinta a farlo
«Mi ha spinto la necessità di essere liberi, che riguarda la coscienza umana. Ogni volta che penso alla censura o all’autocensura mi sento male. È una condizione disabilitante. Anche se si gira un film di nascosto, la censura agisce comunque e impone molti più limiti che non girare in libertà. L’esigenza di essere fedeli a sé stessi però continua a esistere e resistere. Penso che chiunque lavori a un film con me, senta la stessa cosa. Non riguarda solo me come regista o sceneggiatore, ma tutti quelli che partecipano: tutti vogliono essere fedeli alla libertà artistica e di pensiero».
I suoi film sono banditi in Iran. I suoi connazionali riescono comunque a vederli?
«I miei film inseriti in black list hanno trovato diffusione attraverso il mercato nero online. In Iran, a parte i film governativi, non vengono proiettati molti altri film nei cinema. La popolazione ha accesso al cinema straniero e ai prodotti underground solo tramite quest’altra modalità. Per me fare cinema ha sempre significato invece confrontarmi con la resistenza e rispondere agli atti del regime. Mi sono posto più volte la domanda: è meglio rimanere in Iran e andare in prigione, oppure trovare un altro modo per opporsi? Ho fatto di tutto per restare nel mio Paese. L’ultima volta mi hanno anche ritirato il passaporto per anni, impedendomi di lasciare il Paese. Quando ho capito che avrei potuto passare anni in carcere, ho realizzato che sarei stato solo un cineasta in prigione. Allora ho scelto una via alternativa. Lasciare l’Iran, per me, è stato un atto di resistenza alla censura. In quest’ultimo anno all’estero sono cambiate alcune cose, e spero che i cambiamenti continuino. La speranza c’è sempre. Quando sono partito, molti sviluppi recenti non erano ancora avvenuti. Il regime ha allentato la sua presa. Non c’è più Assad al potere, e magari in futuro non ci sarà più nemmeno Khamenei».
Nel Seme del fico sacro si parla di totalitarismo ma anche di confronto tra generazioni e rapporti familiari. Come sono nati questi temi?
«Tutto è nato da un episodio vissuto in prigione. Uno degli alti funzionari mi fece un discorso che mi colpì profondamente. Mi confessò di odiare sé stesso, perché era in conflitto con ciò che faceva; aveva pensato al suicidio e viveva un forte contrasto con i figli, che lo accusavano di lavorare per un regime dittatoriale. La scintilla iniziale è stata proprio l’idea di una famiglia divisa. Per quanto riguarda la figura del padre, sono anni che parlo con i giudici, e avevo già in mente questi personaggi. Le ragazze, invece, sono state ispirate dal movimento e dall’attivismo. Ho parlato con loro, soprattutto con quelle che venivano da famiglie collaborazioniste, e ho costruito i dialoghi a partire da questi incontri».
E la figura della madre, invece?
«Mi sono ispirato a mia zia paterna. È la tipica madre iraniana, che cerca sempre di mantenere l’equilibrio nella famiglia, come qualcuno che cammina su un filo teso. A volte si sposta verso il marito, ma il suo obiettivo principale è mantenere unita la famiglia».
Nel film si vedono altri personaggi che subiscono il potere e poi si contorcono su di esso.
«Il cambiamento nella personalità dei personaggi sottoposti al potere dipende dalle persone. Nelle dittature, i dittatori cercano di individuare chi può portare aiuto alla loro causa e assorbirli nel sistema. Per la mia esperienza, ognuno di questi personaggi si costruiva una propria giustificazione, ma in quel contesto il rapporto umano veniva spezzato. Il movimento delle donne in Iran - “Donna, Vita, Libertà” - ha radici profonde. Personalmente ne sono stato colpito e influenzato. Questo movimento non è solo femminile: tanti uomini ne fanno parte, perché è un movimento fondato sui diritti umani. Ha creato una crepa tra il popolo e il governo, e questo mi dà fiducia e ispirazione».
Riguardo ai movimenti, nel film si usano anche smartphone e registrazioni di piazza, che oggi sono fondamentali nel racconto contro le censure.
«Nei miei primi film usavo un linguaggio più simbolico, ma poi ho deciso di abbandonarlo. La pressione del regime mi spingeva verso quel linguaggio. Il problema principale in Iran è la totale mancanza di libertà e diritti civili fondamentali. I social hanno un’influenza enorme, soprattutto sui giovani. La complessità del reale oggi si esprime anche attraverso nuovi strumenti e linguaggi. Il cinema deve riconoscere questa trasformazione».
Come immagina i suoi prossimi film?
«Mi piacerebbe che ci fossero importanti cambiamenti in Iran a breve. Questo influenzerebbe fortemente anche il modo di fare cinema».

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