lunedì 23 febbraio 2015
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Le pubblicazioni ufficiali lo chiamano “Rifugio Ai Caduti dell'Adamello”, per gli storici della “Guerra bianca” è quasi un sacrario militare, i devoti vi pregano come in un vero e proprio santuario.

Il rifugio Ai Caduti dell’Adamello (Francesco Barattella) Centocinquant'anni prima della scorsa estate, poco distante da lì passò il pioniere boemo Julius Von Payer: era il 16 settembre 1864, e per la prima volta un piede umano offuscò il candore di cima Adamello. Quello stesso candore che divenne rosso di sangue, un secolo addietro: il 24 maggio 1915 l'Italia dichiarò guerra all'impero austroungarico, e il più esteso ghiacciaio d'Italia era sempre lì, Tra val Camonica e val Rendena. Oggi tra Lombardia e Trentino, ma allora tra patria e terra straniera: uno dei fronti più crudi. Passò la Prima guerra mondiale, si consumò pure la Seconda. E 30 anni fa, ad accarezzare il bianco di quelle nevi arrivò dal cielo un uomo vestito di bianco: dall'elicottero, in compagnia di Sandro Pertini scese Giovanni Paolo II, primo (e finora unico) Papa nella storia a salire in Adamello appassionato sciatore. Era il 16 luglio 1984. Tre anniversari, tre irresistibili richiami: una forza quasi soprannaturale che ti spinge a osare. Ad ascendere al ghiacciaio, seppure nel cuore dell'inverno. A calpestare con piede le orme del tenace esploratore, toccare con mano le tristi memorie di immani lutti, abbracciare con lo sguardo quelle nevi immense e sentirvi battere l'immenso cuore dell'”atleta di Dio”. Tre anniversari, e tutti lì. Custoditi da quel riparo aggrappato e sospeso alla Lobbia Alta (3196 metri), piramidale cimetta che è culmine di una granitica teoria disegnata dalla Lobbia di mezzo (3036 metri) con la Lobbia bassa (2958 metri). Appoggio per scialpinisti, in primavera, e per escursionisti, d’estate. Diciamocelo francamente: è stato un esperimento per temerari, la sua prima apertura natalizia.

Le Lobbie, mentre il vento fa “fumare” la neve (Tiziano Canella)Alle Lobbie “Alle Lobbie”, come dice chi è di casa quando si avventura verso il rifugio, d'inverno si sale solo dal Tonale. Prima una cabinovia, poi una seggiovia, e poi ancora un impianto d'archeologia sciistica che lì sopravvive (ma questa è la sua ultima stagione): l'ancora, un ferro dalla foggia marinara che appoggiato al fondoschiena accompagna 2 persone fin quasi al passo Presena. Sci ai piedi, s'intende. Giusto una cinquantina di metri a scaletta, su alla bocca, e il Pian di neve dell'Adamello appare lontano nel suo latteo splendore. In mezzo c'è la Val Genova, perpendicolare allo sguardo: disabitata e selvaggia laterale della Rendena, generata dalle ombre di Carisolo. Ore 9.15 del 5 gennaio. Si dimentichino impianti e piste battute: d'ora in avanti è scialpinismo allo stato puro. “Sto davanti io, tu seguimi e va' tranquillo”: Tiziano Canella ha 25 anni. Ufficialmente è guida alpina, ma nelle oltre 4 ore di traversata fa pure da fotografo e operatore video. E soprattutto si dimostra psicologo, vivandiere, assistente: le insidie della montagna mettono la persona a nudo con se stessa, e a vincerle è solo chi sa attingere - o viene aiutato a farlo - alla totalità delle risorse custodite dal proprio essere. PresenaMeno 10 gradi. Il vento solleva la neve, te la getta sul viso come vaso ripieno di spilli appuntiti. Ti sposta, ti fa smarrire ogni riferimento dinamico. Sei fermo, e ti fa partire. Stai andando, e ti blocca. O peggio ancora ti sbilancia. Dai 3000 metri del Presena bisogna scendere fino al rifugio Mandron, di 600 metri più basso, al vertice della Val Genova. Lunghi traversi e ripidi canaloni: ruggiscono gli sci sulla neve crostosa, accarezzano i soffici ma subdoli accumuli portati dal vento. Nello zaino artva, pala e sonda: se ti sommerge una valanga, hai qualche probabilità in più di raccontarne lo spavento. Il lago Scuro è uno specchio di neve ghiacciata, il lago Mandron lo imita. Li guardi, li attraversi, e pensi al verde dell'estate, e alle loro acque sbarazzine che raccolte dalla Sarca di Genova ingrossano il ramo principale del torrente, giù in Rendena, per poi deviare verso Riva e abbandonarsi fiduciose all'abbraccio del Garda. Ma non c'é tempo per le romanticherie. Cessa la discesa, un falsopiano, ed ecco la salita. Le 3 Lobbie ti guardano 600 metri più sopra, ti chiedono di applicare ai tuoi sci le “pelli di foca”, ti annunciano 3 ore di sudore: togliere la giacca a vento, per te che sei lì, è atto buon senso. Certo, pressochè inconcepibile per i non addetti ai lavori. “Attenzione - avverte Canella - il piede non va sollevato, fatica inutile”. Solo trascinato, nella certezza che quel tessuto sintetico - da tempo non più vero pelo animale - eviterà lo scivolamento all'indietro. La salita è dolce, ma il respiro già pesante. Lo sarà sempre di più, fino al culmine della rampa che è porta del ghiacciaio perenne. Periodica energia un boccone di torrone cremonese, quasi fonte di sopravvivenza un termos ripieno di the bollente. Si scivola, le pelli di foca non bastano più. Ed ecco che la soluzione prende il nome di “rampant”: la guida li estrae dallo zaino e li applica sotto i tuoi piedi, quei ramponi da sci. Giusto pochi minuti, e sei di nuovo pronto per sfidare l'infido fondo. Breve ma ripida la salita, speculare la discesa. E troppo pericolosa: sci sulle spalle di Canella, giù a colpi di tacchi verso la nuova ascesa. Che da quel momento non darà più tregua fino all'arrivo. Rimetti gli sci, viri a sinistra. Abbandoni la distesa del “Pian di neve”, imbocchi ripida la Vedretta del Mandrone. E se il rifugio inizia a mostrarti la sua estremità nord ovest, ancora alla tua sinistra, non è certo per farti sentire arrivato. Semmai, vuol solo indicarsi meta alle faticose diagonali che la pendenza ingenerosa ti obbliga a disegnare. La strada è ancora lunga. Eppure, la facciata che gradatamente si dischiude al tuo sguardo è segno di una presenza sempre più vicina. Al passo della Lobbia alta Quando arrivi quasi al passo della Lobbia alta, sei già oltre il rifugio; ma finalmente tra te e quello scrigno di memoria ogni dislivello é colmato.

In salita verso la vedretta del Mandron (Tiziano Canella) Una brusca inversione, un centinaio di metri in traverso. Ore 13.30, terrazza della granitica costruzione. Via gli sci, via gli scarponi: la libertà ti accarezza con un paio di calde ciabatte, mentre l'abbraccio della stufa accalora la voce di Romano Ceschini. “Da quando son qui? Diciamo che qui praticamente ci son nato: fino ai miei 13 anni il papà è stato gestore, poi le vicende sono andate diversamente...ma poi ancora il destino ha voluto che tornassi qui in prima persona, nel 2000”. Ti guardi attorno. Sulle pareti, le memorie di Karol Wojtyla si accavallano a cimeli della Grande guerra, la cui porzione adamellina generazioni di storici insegnano a chiamare “Bianca”. Fornelletti, munizioni, calzature: il ghiacciaio si ritira inesorabilmente, ogni anno restituisce qualcosa. E pure qualcuno, talvolta.Gli sci di Giovanni Paolo II Di Giovanni Paolo II vedi invece in un armadio vetrato gli sci, quelli che il 16 e 17 luglio 1984 divennero strumento di un qualcosa mai visto prima - e pure dopo - di allora. Ma vedi anche ciò che 3 decenni di estrosa devozione hanno affidato al millenario sguardo delle Lobbie. Una meridiana, per esempio. Sì, una vetrofania segnaore che Ceschini si è trovato a sorpresa nella sua casa di Pinzolo. Chi l'abbia realizzata e donata resta un mistero. Sconosciuto il significato delle sue immagini, ma semplice e accorata la dedica: “Papa Karol Wojtyla, amavi le montagne, e su questa cima ti vogliamo ricordare”. L'altare del Papa Ed é un tempo che profuma della sua presenza, quello sperimentato dopo un pranzo semplice ma curato: l'”Altare del Papa” sul passo della Lobbia alta, a una decina di minuti dal rifugio, è un sempiterno blocco di granito scolpito nel 1988 dalla famiglia Pedretti. Pure da Faustino, bimbo a Bienno (Brescia) e cavatore a Carisolo (Trento): un'altra di quelle storie che racconta il ghiacciaio. Perché sì, Giovanni Paolo II nel 1984 in Adamello salì segretamente (o almeno tentó di farlo, prima dell'annuncio “urbi et orbi” dell'allora Presidente della Repubblica, il pomeriggio del 16 luglio). Ma poi ci tornò con tutti gli onori, 4 anni dopo, per celebrare il 25esimo pellegrinaggio con cui gli Alpini bresciani e trentini ricordavano e ricordano i Caduti della “Guerra bianca”. E quale idea migliore, se non quella di realizzare un altare in granito della Val Genova, che fosse benedetto proprio dal grande Wojtyla? Faustino sciorinò tutto il suo ingegno, e con la collaborazione di molti riuscì nell'opera. D'altronde, anche 4 anni prima il figlio Gabriele aveva portato a segno una quasi pazzia: salire alle Lobbie per incontrare il Papa. Ma nottetempo, fuori da ogni sentiero, per eludere i posti di blocco con la spregiudicatezza dei suoi vent’anni. “Non c'è posto più adatto - scandì il Pontefice al termine della Messa sul nuovo altare - che invita a questo sacrificio di Cristo. Un posto, un ambiente di tanti sacrifici delle giovani vite, delle giovani persone, dei nostri fratelli nel Signore, caduti”. Sì, non ci fu ringraziamento migliore per l'intraprendenza degli scalpellini camuni naturalizzati trentini.

“L’Altare del Papa” al passo della Lobbia (Tiziano Canella) Meno 15 gradi, il vento che soffia a 60 chilometri orari, la neve che taglia il tuo viso. Mentre ti avvicini alla Mensa eucaristica un suono ti richiama, ti accompagna e ti emoziona. La campana accanto all'altare oscilla, una mano invisibile distende visibilmente la sua corda. Un piccolo dondolio, uno più ampio, uno più grande ancora. Un rintocco, una breve sequenza di suoni. Ed ecco accendersi nei tuoi occhi un'immagine: quella del Lezionario, il libro delle Letture che sulla bara del pontefice montanaro si offrì in mondovisione al saluto del vento. Ma lì, sul ghiacciaio, i tuoi occhi non vedono né prete né funzione: ti accorgi allora che a celebrare la sua liturgia eterna è la stessa creazione. Poi guardi da vicino quel bronzo che a essa richiama, ne leggi le iscrizioni e ti immergi nella sintesi che distillano quei ghiacci perenni. “Succurre cadenti”, invoca la campana: “Soccorri colui che cade”, recita un'antifona mariana. Ecco la preghiera alla Madre: quella a cui Giovanni Paolo II fu sempre devoto, quella stessa a cui migliaia di soldati si rivolsero lì nel loro ultimo istante.La Madonna dell'Adamello A pochi passi, sorride la “Madonna dell'Adamello”: una lapide inaugurata insieme all'altare. Poco sotto, dalla neve affiorano massi avvolti di filo spinato. Ai piedi della Mensa, qualche lumino rovesciato. Ma ecco il bronzo a raccontarti un'altra delle sue storie: “Ottorino Comini Odolese Donavit A.D. MCMLXXXIV”, compone una sfilata di lettere. “Donata nel 1984 da Ottorino Comini di Odolo” (Valsabbia, Brescia), si traduce. Già. La volle quello stesso Alpino - scomparso nel 2000 - che insieme ai Pedretti e ad altri si adoperò perchè i bresciani “inventori” del pellegrinaggio in Adamello dessero un ruolo ufficiale ai compagni trentini che già vi partecipavano. Per la cronaca: ora, ogni luglio, uno stuolo di Penne nere sale da entrambi i versanti. Camuni e Rendeneri lo animano insieme. E, ad anni alterni, gareggiano per la miglior organizzazione dell'evento conclusivo. Quello che si tiene in valle: una volta di qui, una volta di là.
Cresta CroceNon ci si scappa: il confine preciso tra le 2 terre è sempre lì, tra il Pian di neve e il passo della Lobbia alta. Su Cresta Croce, per l'esattezza. Da cui l'immenso simbolo cristiano che la sormonta, 300 metri sopra il tuo naso, splende puntiforme in un tramonto infinito. Quando Wojtyla vi pregó rivolto occhi e cuore, inginocchiato alla finestra della sua stanza o seduto sulla terrazza del rifugio, era un incrocio di 2 legnetti logorati dal tempo. Li aveva scorti anche Payer, e citati nel suo diario. Furono il Giubileo del 2000, la determinazione di camuni e rendeneri e il granito della Val Genova a rinnovarla in un eterno immane richiamo di speranza: era l'alba del nuovo millennio, quando la punta più alta - con la nuova grande realizzazione firmata sempre dai Pedretti - venne battezzata “Cima Giovanni Paolo II”. La contempli anche tu, dalla terrazza, mentre uno stormo di grole volteggia sotto l'estremità nord ovest del rifugio. Il freddo ti convince a rientrare, ma quel segno continua a svelarsi attraverso la proiezione del video che tramanda ai posteri l'impresa titanica: ci vollero un elicottero dell'Esercito e una buona dose di “santa” incoscienza, per issare a 3.300 metri quei 50 quintali di granito. Antico strumento di una morte sconfitta dopo 3 giorni, simbolo di pace accanto a una mastodontica macchina da guerra: è una massa di 6 tonnellate l'”Ippopotamo”, il cannone issato lì nei pressi dagli italiani, quando i trentini ancora si chiamavano austriaci. Intanto il tepore del rifugio ristora le tue fatiche, mentre fonde accento bresciano e accento trentino in una piccola pentecoste: parlano ognuno il proprio dialetto, i 15 alpinisti presenti, e nessuno corre il rischio di rimanere incompreso.Il ricordo di Giovanni Paolo II La montagna unisce di suo. Figuriamoci se poi è santuario dell'amato Wojtyla. “Il 2 aprile 2006, primo anniversario della sua morte, mi son trovato qui una trentina di persone salite apposta per lui”. Ceschini quasi non ci credeva: una folla immensa, per quel periodo e quell'altitudine. “Da allora è stato un pellegrinaggio spontaneo che si rinnova ogni anno. C'è chi porta all'Altare un rosario, un lumino, una dedica. Certo, il vento poi lì spazza via subito tutto o quasi...”. Quel vento che a Roma ha accarezzato la salma del Grande, e sulle Lobbie animato la sua campana. Quello stesso vento in cui millenni di tradizione cristiana riconoscono il soffio dello Spirito, il Consolatore che di tante genti forma un unico popolo senza più guerre. Sibila sul ghiaccio un tempo bagnato di sangue, abbraccia la neve benedetta dall'uomo di pace.

Sulla tavola, il pasto serale arriva alle 18.30. A pranzo puoi scegliere tra 2 piatti per portata, per cena ti rimane la seconda opzione. Non è così d'estate, quando il - relativo - maggior movimento e la presenza di acqua corrente assicurano un menù più vario. Ma montagna fa rima con essenzialità. E a proposito di acqua: è un paradosso, eppure sul ghiacciaio quella dei rubinetti vale oro. D'inverno gela. Così, tinozze e brocche dei bagni ti riportano a un passato che tu non hai visto. I tuoi nonni sì. La serata è breve, a 3040 metri. Ma nello stanzone che alle vestigia della guerra unisce quelle del Pontefice che pregó per i suoi morti - una sorta di museo e saloncino conferenze - è tempo di un altro audiovisivo: la storia dello storico rifugio. I posti più ambiti sono quelli vicini alla stufa, una fonte di calore che accanto alla carica di pellet non disdegna qualche ciocco di bosco. D'altronde, poggia su tradizione e innovazione la secolare vita di quel roccioso riparo. Che vide le sue ideali fondamenta nelle 5 casermette edificate 100 anni fa, quando lo scoppio della guerra aveva reso la Lobbia alta un luogo strategico. Che nel 1928 venne ufficialmente adattato a ricovero per intrepidi alpinisti. E che nei primi anni 2000 chiamò a sè uno stuolo di restauratori: il ghiacciaio si era ritirato, la costruzione non aveva più fondamenta, e solo 7 milioni di lavori ingegneristici han potuto salvare dal crollo quello speco di riparo, memoria e fede. Troppo elevato il costo, per il Cai (Club alpino italiano) di Brescia ai tempi titolare della struttura. Ecco allora l'idea: costituire una Fondazione (”Ai Caduti dell'Adamello”) che raccogliesse anche le risorse delle Provincie di Brescia e di Trento, del Comune di Spiazzo Rendena proprietario del suolo, di tante altre Amministrazioni, enti e associazioni. Bisognava costruire un futuro a quel rifugio, sacrario e santuario, perché continuasse a custodire le sue storie secolari e a generarne di nuove. Storie di soldati e sciatori, di papi e pionieri, di arrampicatori e presidenti della Repubblica. Di gente tenace che ha issato croci e gru, altari e pali, campane e pietre: solo Dio sa cos'ha illuminato la loro mente, nelle camerette di legno, quando gli occhi stanchi lì si chiudevano al chiarore lunare delle nevi perenni.  E l'alba?

È una scala di rosa quella che irradia l'Epifania, il giorno in cui la luce di Betlemme brilla su tutti i popoli della terra. La luna indugia nel cielo, non teme quello splendore. Tu lo contempli, e mentre accompagni un caffelatte fumante con pane, cioccolato e marmellata, assumi il carburante che muoverà sul ghiacciaio la tua macchina umana. C'è da rientrare, certo. Ma non prima di aver deviato sul “Pian di neve” oltre il Corno Bianco: è là che Cima Adamello si dischiude agli occhi dello sciatore, che quella rampa triangolare s'impone nei suoi 3.554 metri sovrani. Divertente discesa dov'erano faticose diagonali è la Vedretta del Mandrone, ma presto di nuovo pelli di foca e olio di gomito. Breve traverso a sinistra, inversione di marcia: la salita è leggera, eppure c'è. E quel bianco immobile oceano su cui navigano ora i tuoi piedi falsa ogni distanza. Sembra qui, ma è là. Appare vicino, ma in verità è lontano. Trascini gli sci, e pensi a Payer. Lui salì dalla Val Genova, 150 anni fa, non dal Presena. Corno Bianco Ma, a quel punto, i tuoi passi si sono ricongiunti ai suoi passi. Ingrato, il pioniere boemo: delle sue guide rendenere ebbe a dire che “al loro posto sarebbero stati più utili 3 muli”, quando invece lo condussero sano e salvo sul trono d'Adamello prima e in valle poi. Un motivo in più per ringraziare il volto sorridente di Canella, nonostante stia rapendo il tuo stanco incedere con l'arma della sua telecamerina sportiva. Poco importa: la vetta che è regina del gruppo compare alla sinistra del Corno Bianco, mentre i suoi 3539 metri solleticano l’azzurro dell’infinito. Una foto artistica. Inversione di marcia. Ed è tempo di emozionarsi nuovamente nel segno del Pontefice polacco.

Il Corno Bianco, in primo piano, e cima Adamello, sulla sinistra (Tiziano Canella) Il Pian di neve Il “Pian di neve” si muove come tutto il ghiacciaio, ogni anno mostra un volto nuovo. Ma se fosse una pista battuta, ancor oggi il suo letto centrale continuerebbe a tingersi di blu: discesa facile. Karol Wojtyla sciò anche lì, ed è lì che le tue orme cercano le sue. Nelle croste di quella neve, dove 30 anni fa scivolarono i piedi del Papa sportivo. In quel cielo cobalto, dove ora e sempre abiterà la presenza del Papa santo.

Quando scendi velocemente, ripercorrendo a ritroso l'itinerario dell'andata, ti sembra di aver lasciato su qualcosa di impalpabile. Intanto arrivi al Mandron, dove i 600 metri in salita che ti separano dal Presena ammazzano il morale di un fisico già provato. Ma è solo un istante, perchè subito capisci che l'aver toccato il cielo con un dito è premio che ha prezzo: sacrificio, abnegazione, determinazione. Passo, dopo passo, dopo passo. Canaloni. Traversi. Pericolosi dirupi, “protetti” dalla guida leggermente più a valle di te. Quando finalmente gli sci accarezzano il Presena, sai che a quel punto sarà solo questione di una discesa battuta. E' allora che hai la forza di guardare indietro, là dove le Lobbie lontane risplendono nella luce del vespro.

Le Lobbie dal Presena (Tiziano Canella) Le scruti, la tua mente ripensa a quei momenti. Ai rischi della traversata, alle persone incontrate. A Payer, alla Grande Guerra, a Giovanni Paolo II. A passato e presente, a luce e tenebre. A bene e male che duellano nella storia verso un esito già scritto. E il tuo cuore riconoscente anticipa quel “Venite adoremus Dominum” che di lì a qualche ora, in una chiesetta della Valcamonica, risuonerà semplice e solenne nella Messa dell'Epifania.

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