martedì 26 maggio 2020
Il 28 maggio 1980 l’inviato del “Corriere della sera”, ed ex di “Avvenire” è assassinato dai terroristi. La sua libertà, fermezza e fede sono traccia per la professione e per la società di oggi
Walter Tobagi nel gennaio 1980

Walter Tobagi nel gennaio 1980 - de Bellis/Fotogramma

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Quelle migliaia di cittadini, sotto ombrelli e soprabiti bagnati, in quella «fredda mattina di maggio» davanti alla sede dell’Associazione dei giornalisti in via Monte Santo, a Milano, sono diventate un simbolo degli anni di piombo. Era il 28 maggio 1980 quando Walter Tobagi, giovane inviato del “Corriere della Sera” e presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, venne ucciso in via Salaino da quattro proiettili sparati da Marco Barbone e altri cinque terroristi della “Brigata 28 marzo”.

Se la R4 rossa in via Caetani a Roma, col cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio, è l’immagine di uno Stato “colpito al cuore”, la gente comune davanti al sindacato dei giornalisti fu la testimonianza di una Milano «sofferente e provata» ma che, come scrisse esattamente 10 anni fa il cardinale Carlo Maria Martini, aveva «soprattutto il desiderio di risollevarsi, di rispondere con un deciso “no” alla violenza». La stessa folla che «stretta in un ideale abbraccio», pochi giorni dopo, al funerale celebrato dall’arcivescovo nella chiesa di Santa Maria del Rosario, sembrava voler «ricercare una forma di coraggio da condividere».

La piazza, muta, nel dare l’addio al giornalista ucciso, affermava anche inconsapevolmente che i brigatisti, come aveva scritto un mese prima sul “Corriere” lo stesso Tobagi commentando l’arresto di alcuni terroristi infiltrati nel sindacato, non sono «samurai invincibili». Dopo l’incursione delle forze dell’ordine in un covo delle Br in via Fracchia a Genova il 28 marzo di quello stesso anno – la “sigla” che i killer giustapposero nel rivendicare il loro attacco alla «stampa di regime» – Tobagi in un’analisi lucida, quanto ferma e pacata, aveva affermato che «adesso si dissolve il mito della colonna imprendibile».

Piccole crepe nel partito della lotta armata, e segni di riscatto di una società sconvolta e lacerata, ma non piegata. «Il cerchio dell’omertà intorno ai brigatisti si stava rompendo », scrive Ferruccio De Bortoli in un appassionato, quanto prezioso, amarcord di quegli anni vissuti insieme a Tobagi prima al “Corriere d’Informazione” e poi al “Corriere della Sera”, pubblicato nell’ultimo numero di “Il Giornalismo”, il periodico dell’Associazione lombarda giornalisti.

Fu il vice capocronista Fabio Mantica il 28 maggio ad alzare il «pesante telefono in bachelite nera» e correre a dare la notizia alla direzione del “Corriere della Sera”. «Ci guardammo per pochi secondi. Muti. Poi i telefoni cominciarono a squillare tutti insieme», ricorda De Bortoli. Da quel momento, oltre al dolore, iniziò pure la riflessione sull’eredità professionale dell’inviato Walter Tobabgi, e sull’eredità sindacale del presidente dell’Alg dal 1978 al 1980.

Chiunque abbia fatto attività sindacale e incontrato qualcuno di quella “leva” giornalistica, almeno una volta non può non aver sentito pronunciare il nome «Walter» con l’affetto, il rispetto e la laica devozione che si deve a un amico perso, a un martire civile, a un fondatore di una corrente fra i giornalisti italiani e certo di altro ancora.

La scissione nel 1978 – prima del congresso di Pescara della Fnsi – dei delegati socialisti da Rinnovamento, la corrente maggioritaria di sinistra e centro–sinistra, il ribaltone di maggioranza che elesse Walter Tobagi – leader di Stampa democratica appena fondata – alla presidenza della Alg, può sembrare oggi un gioco di palazzo per “professionisti del sindacato”, se non lo si legge in una prospettiva più ampia. In quei due anni, mentre il collateralismo e una lottizzazione del sindacato inteso come come “cinghia di trasmissione”, sembrava essere il prosaico modus operandi della categoria, Tobagi già autore nonostante la giovane età di una manciata di saggi storici sul movimento sindacale, elaborò una nitida teoria sul sindacato e sulla funzione sociale del giornalista. Nel pieno della cosiddetta “Repubblica dei partiti”, afferma Giovanni Negri, attuale coordinatore nazionale degli Enti dei giornalisti, «ci insegnò a lasciare fuori dalla porta il collateralismo e l’ideologia, e a lasciare spazio ai valori del sindacato e della professione da mettere completamente e solamente al servizio della società: grazie a Walter Tobagi elaborammo il principio dell’autonomia, per un giornalismo libero, indipendente e pluralistico».

Una rottura non indolore, con strascichi polemici nella sinistra come nella componente cattolica, tanto che vi fu chi parlò ironicamente di «sindacalismo ortopedico». Quello che resta è un fondamentale manifesto sindacale figlio del riformismo socialista a cui Tobagi apparteneva, capace di conciliare, in una personalissima sintesi, il suo essere cattolico. Un aspetto indagato dal convegno “Walter Tobagi testimone cristiano”, organizzato nel 2006 alla parrocchia di Santa Maria del Rosario a Milano dove ancora molti lo ricordano.

Un intellettuale che non nascondeva il suo frequentare, con la famiglia, la parrocchia. Nel figlio del ferroviere Ulderico, giunto dalla periferia Nord di Cusano Milanino al liceo Parini, traspariva – leggendo le testimonianze degli amici assistenti del gruppo di Storia dell’Università statale – una religiosità autentica, per quanto sobria e riservata. In questo percorso ben si inscrive, dopo una esperienza iniziale all’“Avanti”, il triennio (1969–1972) ad “Avvenire”. «Tobagi era cattolico, credente, praticante», affermò al convegno Giuseppe Baiocchi, suo compagno di studi e poi collega al “Corriere”. La fede, considerata in quegli anni un accessorio all’appartenenza politica, per lui «non era un accessorio», semmai uno sprone ad avere nella professione «un po’ più di rigore su se stessi, e un po’ meno abitudine alla propaganda e all’ideologia».

È, quella del cronista, dell’intellettuale e del laico cristiano (christifideles) ucciso in via Salaino, una lezione che secondo il presidente della Fnsi Giuseppe Giulietti «andrebbe riproposta nella faticosa ricerca del futuro del giornalismo, nel mutare delle condizioni storiche e dell’organizzazione del lavoro». Una memoria, quella di Tobagi, «non pesante fardello da portare sulle spalle, ma una luce che può illuminare i passi anche di chi non lo ha conosciuto», conclude Giulietti sempre sul numero speciale di “Il Giornalismo”. Una luce, per cercare il futuro dell’informazione, sapendo che neanche la notte delle fake news e dell’hate speech, della digitalizzazione selvaggia, della precarizzazione generalizzata, della concentrazione di potere economico e finanziario, della commistione con la pubblicità, la notte di una debole deontologia e della strumentalizzazione da parte di nuovi e vecchi interessi di parte, neanche oggi sono «samurai invincibili».

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