mercoledì 4 dicembre 2019
Il teologo, creato cardinale da papa Francesco, riunisce le riflessioni uscite su “Avvenire”: un piccolo grande libro che aiuta a vivere meglio in quest’epoca di fretta e troppa superficialità
Il teologo e cardinale portoghese José Tolentino Mendonça

Il teologo e cardinale portoghese José Tolentino Mendonça

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Il piccolo libro delle grandi domande del cardinale José Tolentino Mendonça (pagine 138, euro 13,00) è il nuovo volume della collana “Pagine prime”, realizzata da Vita e Pensiero in collaborazione con “Avvenire” per valorizzare i contributi più originali del nostro giornale. In questo caso i testi del cardinale Tolentino erano apparsi su “Avvenire” nel 2017.

I lettori di “Avvenire” hanno già incontrato i testi che José Tolentino Mendonça ha proposto quotidianamente da gennaio a marzo 2017, in forma di domande da cui ripensare la nostra vita. Ora, per tutti, sono riuniti col titolo Il piccolo libro delle grandi domande, tradotti da Pier Maria Mazzola (Vita e Pensiero, pagine 144, euro 13,00): insieme mostrano la loro forza compatta, la loro origine unitaria. L’autore, creato cardinale da Papa Francesco lo scorso ottobre, nato a Machico, nell’arcipelago di Madera, è un teologo portoghese di fama internazionale che apprezza la letteratura e l’arte, specialmente la poesia, per lui avvicinamento al divino (memorabile la sua curatela di Sono in un sogno di Dio di Fernando Pessoa, uscito per Qiqajon nel 2015). In queste pagine cerca il punto di vista dell’anima, sempre restando dentro la quotidianità «nella sua turbolenza», che è sinonimo di vita. È perciò disposto ad affrontare qualsiasi argomento, non precludendosi nulla, dato che sarebbe come voler evitare la nostra più grande domanda: perché siamo qui? E poiché ciò che vediamo non è «tutto ciò che c’è da vedere», abbiamo bisogno di fermarci ogni tanto a pensare, per non rischiare che la nostra vita diventi «una preda in una foresta di fantasmi»: superficialità, fretta, attaccamento al passato, a delusioni e ferite che ci imprigionano in desideri di vendetta.

Accanto alle questioni propriamente teologiche, riflessioni sull’umanità e la ricerca di Dio, Tolentino ci sorprende confidandoci i suoi sentimenti, mettendo in gioco la propria esperienza, sempre con la stessa profondità toccante. Per esempio, ci racconta come si sentì in imbarazzo ascoltando le parole affettuose di un amico, che gli rivelava l’importanza della loro amicizia nella sua vita. È proprio questa la forza del libro, tutt’altro che piccolo: è guidato dall’autenticità, e le domande che sgorgano dal cuore si trasformano in insegnamenti, in consigli, in spunti di riflessione.

Per un unico obiettivo: la gioia come impegno quotidiano, a dispetto di qualsiasi ostacolo, per rivalutare la nostra vita come cammino verso Dio.

Il libro può dunque diventare un ricchissimo manuale di meditazione quotidiana, anche sull’attualità più spicciola. Dovunque vada la nostra attenzione sorgono domande e ogni domanda è «una possibilità di nascere». Tolentino ci esorta a vivere l’amore per i nostri familiari, rivalutando la figura del padre, che una forma di timidezza affettiva induce a non gratificare con la gioia dell’abbraccio. Ci invita a lasciar andare rancori, permettendoci la leggerezza che nasce dal perdono, vero e proprio disgelo del cuore. Riflette sulla passione per il calcio, diventato un surrogato della religione e un mattone della costruzione di senso dell’Occidente, secondo Marc Augé. Commenta il legame fra la scomparsa delle lucciole nelle campagne e l’opprimente consumismo, da una riflessione di Pasolini. Ci invita a reinventare il modo in cui esprimere l’amore, rubando le parole di Woody Allen nel film Io e Annie.

Questi ultimi nomi sono tra quelli di possibili “maestri” del nostro tempo, che ne sembra essere così povero: classici, come Tertulliano con la sua motivazione a credere «perché è assurdo», o il poeta cinese Li Bai che esorta a vendere uno dei nostri pani per comprare un giglio. Oppure novecenteschi: Milan Kundera che si chiede perché non siamo felici; Natalia Ginzburg che si preoccupa dell’eredità da trasmettere alle nuove generazioni: per l’autore, soprattutto un’educazione alla generosità, perché uno degli imperativi del nostro tempo è «desacralizzare il denaro». E ci sono maestri inattesi: la scrittrice mozambicana Pauline Chiziane, secondo cui «Dio è un profugo di guerra» presente in ogni dramma della storia. O la suora americana Corita Kent, contemporanea di Andy Warhol, che per prima utilizza il linguaggio della pop art per parlare di religione, rendendo «gloria a Dio per i paesaggi urbani» che «trasudano di segni». Il geografo Franco Michieli, che invita a «camminare scalzi» per non difenderci dalle suggestioni del viaggio. Martha Graham, che supera la tentazione del volo insita nella danza e cerca un legame più stretto con la terra.

Tutti pongono al centro l’amore e la fede come arte del rischio, come interminabile «test sulla fiducia»; ma anche servizio, perché siamo sempre chiamati a credere al posto di o invece di qualcun altro. Per questo Tolentino ci ricorda che basta conservare l’amore di Dio dentro di noi come competenza essenziale per vivere la «singolare polvere innamorata di cui la vita è costituita». Perché ogni vita è un tempio di Dio, come prova «l’irriducibile singolarità del soggetto» che sta assumendo sempre più importanza nella teologia contemporanea. In questo senso la scrittura può diventare una preghiera, attuando l’invito a incontrare noi stessi di Orhan Pamuk, per scoprire il nostro vero desiderio del cuore. Non quello che si concretizza nel possesso, ma coincide con la realizzazione del nostro essere.

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