domenica 8 febbraio 2015
​​Il regista mauritano Sissako racconta, con crudo humero, l'occupazione del Mali da parte dei miliziani. La pellicola, premiata a Cannese, è data per favorita nella corsa per l'Oscar come miglior film straniero.
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I jihadisti non riescono a far ridere neppure quando si rendono ridicoli. Proibiscono di giocare al calcio e intanto si perdono in lunghe discussioni su chi, tra Messi e Zidane, sia il più bravo. Condannano il tabacco, ma si appartano in mezzo alle dune per fumarsi una sigaretta. Sono pronti a condannare a morte i fornicatori, però non disdegnano di desiderare la donna d’altri. Non smettono mai, purtroppo, di incutere paura, la paura che sempre si prova al cospetto dell’ignoranza e della prepotenza, del furore ideologico e della presunzione di impunità. Premiato dalla Giuria ecumenica a Cannes e dato per favorito nella corsa all’Oscar per il miglior film straniero, Timbuktu di Abderrahmane Sissako non è esattamente  Il Grande Dittatore del XXI secolo, anche se – proprio come il capolavoro di Chaplin – riesce ad alternare momenti poetici a piccoli sketch ironici.  A prevalere, tuttavia, è un tono cupo, drammatico, molto lontano dalla soavità della favola politica in cui Charlot prestava i baffetti ad Adolf Hitler. La commedia, del resto, non è nello stile di Sissako, il regista mauritano che per realizzare Timbuktu (nelle sale italiane da giovedì 12 febbraio) ha affrontato molti rischi, sia in Mali, dove il film è ambientato, sia nel suo Paese, dove la troupe si è trasferita per ultimare le riprese non senza incontrare altre ostilità e minacce. Attori in maggioranza non professionisti o comunque non abituati al grande schermo, a partire da Ibrahim Ahmed, il musicista di origine maliana e da tempo attivo in Spagna al quale è andato il ruolo del pastore berbero Kidane, quanto di più simile a un protagonista si possa immaginare in una vicenda corale come questa. Siamo appunto a Timbuktu nel 2012, nel momento dell’effimera occupazione del Mali da parte dei miliziani jihadisti. Entrano in vigore i dettami di una shari’a grossolana, per cui non solo alle donne viene imposto il velo, ma viene anche fatto obbligo di indossare i guanti, in modo da evitare ogni sospetto di indecenza. L’episodio della pescivendola che coraggiosamente si rifiuta di obbedire a questa norma assurda è uno dei tanti che Sissako ha tratto dalla cronaca di quel periodo, insieme con lo spunto iniziale (la lapidazione di una coppia di adulteri) che nel racconto occupa appena pochi istanti. Eppure il regista è partito proprio da lì e la tragedia verso la quale Kidane va incontro con la sua famiglia è, in un certo senso, una variante di quell’esecuzione. Al di là delle innegabili qualità artistiche, il merito maggiore di Timbuktu sta nella messa in scena dell’impatto devastante tra l’ideologia jihadista e una società tradizionale capace di custodire i valori della tolleranza e del rispetto, nel segno di un islam per il quale l’unica “lotta” possibile è di tipo spirituale e interiore. Non si tratta, insomma, di contrapporre l’Occidente “civilizzato” alla pretesa di un violento ritorno a un passato arcaico. Al contrario, i guerriglieri sono i più esposti alle lusinghe della modernità: imbracciano fucili automatici, guidano motociclette e fuoristrada, realizzano video di propaganda, si chiamano tra loro al cellulare adoperando un inglese maccheronico. La loro modernità, però, non è meno parodistica del loro atavismo. È la trappola in cui cade Kidane, colpevole di aver ucciso in un alterco l’uomo che, in un impeto d’ira, aveva ammazzato il capo più pregiato della mandria. Il delitto viene giudicato da un improvvisato tribunale islamico, che decreta la sentenza capitale. Ma in tutta la città le punizioni corporali sono all’ordine del giorno. Per meritarsi qualche decina di scudisciate basta essere sorpresi a fare musica, altra attività proibitissima. E non è un caso che tra le scene più belle di Timbuktu ci sia quella in cui una ragazza, fustigata per aver osato cantare, risponde alle staffilate intonando una nuova canzone, che i carnefici non possono impedire perché, in realtà, è già stata sanzionata. Un capovolgimento di logica ribadito nella sequenza che rappresenta, a tutti gli effetti, la sintesi del film e la celebrazione dello spirito che lo sostiene. Giocare a calcio non si può, lo abbiamo già detto. I ragazzi allora si ritrovano al campetto senza pallone, mimano cross e passaggi, punizioni e azioni in area. Esultano quando uno di loro finge di segnare e sono prontissimi a smettere non appena all’orizzonte si profila la solita moto su cui viaggiano i guardiani della virtù. Non è la gag del mappamondo nel Grande Dittatore,  però la ricorda, la ricorda molto.

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