
Il maestro Vittorio Storaro, 85 anni, tre volte Premio Oscar - .
«La figura di Gesù è stata il fondamento della mia vita, umana oltre che professionale. Mi ha sempre affascinato la sua storia, che ho approfondito in tutte le sue sfaccettature, studiandola attraverso le arti: dalla pittura alla scultura, fino al cinema». Così racconta il premio Oscar Vittorio Storaro, che oggi sta lavorando al progetto della sua vita: un film sull’infanzia sconosciuta di Gesù, quella fino ai dodici anni, a partire dalla fuga in Egitto.
Il maestro della cinefotografia mondiale — chiamato da registi del calibro di Luca Ronconi, Giuliano Montaldo, Bernardo Bertolucci, Francis Ford Coppola, Warren Beatty e Woody Allen — ha dato forma e colore a capolavori del cinema internazionale. In oltre cinquant’anni di carriera ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui tre premi Oscar: nel 1980 per la miglior fotografia in Apocalypse Now di Coppola, nel 1982 per Reds e nel 1988 per L’ultimo imperatore.
E il 5 luglio il maestro Storaro, 85 anni, terrà una masterclass per il Lecco Film Festival, la rassegna di cinema “con l’anima” diretta da monsignor Davide Milani giunta alla sesta edizione, al via oggi sino al 6 luglio.
Maestro Storaro, lei sarà ospite del Lecco Film Festival. Cosa presenterà?
«Sarà un incontro con giovani che si interessano al cinema, alla fotografia, alla scrittura, all’arte. Voglio offrire non solo insegnamenti tecnici, ma esperienze di vita e arte. È importante scegliere ragazzi che abbiano una vera passione per queste discipline: a loro voglio trasmettere ciò che ho imparato in oltre 75 film».
Perché proprio i giovani?
«Nella mia generazione si cercavano riferimenti forti: un ciclista, un cantante, qualcuno da seguire. Oggi molti ragazzi si sentono persi, non hanno punti di riferimento durante l’infanzia. Ho un progetto che vuole proporre una figura alternativa: un Gesù bambino che cresce, studia, apprende, si forma. Una figura reale e vicina, capace di ispirare».
Maestro Storaro, ci racconta questo progetto di un film sull’infanzia di Gesù?
«Mi sono accorto che nei Vangeli c’è un vuoto tra i 6 e i 12 anni di Gesù. Un’età fondamentale, che invece è raccontata poco o nulla. La prima esperienza visiva che mi colpì fu quando alle elementari una maestra ci diede un libricino con delle pitture: a destra una signora in azzurro e a sinistra l’angelo. Era l’Annunciazione di Leonardo da Vinci. Così ho iniziato la mia ricerca iconografica su quel Bambino fra la grande pittura. Qualche anno fa siamo andati a fare una ricerca sul campo in Egitto, con mio figlio e un amico regista Rashid Benhadj. Mi sono chiesto: chi ha provato a immaginare quella fase della sua vita? E da lì ho costruito un percorso visivo».
Ha parlato spesso dell’importanza della pittura nella sua formazione. C’è stato un momento decisivo?
«Sì. Dopo anni di studio tecnico – cinque anni di fotografia a Roma e quattro al Centro Sperimentale – un giorno, con mia moglie, entrai nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Scoprii per la prima volta Caravaggio. Rimasi senza parole: nessuno in nove anni di corso mi aveva mai parlato di lui. È stato uno shock, una rivelazione. Nella Chiamata di san Matteo capii che Caravaggio dipingeva la luce, raccontava attraverso la luce. Da quel momento mi dissi: devo approfondire, leggere, visitare musei. Non basta la tecnica: bisogna comprendere il significato della luce».
Dunque il progetto ha una base pittorica oltre che narrativa?
«Assolutamente. Il mio linguaggio non è quello della parola, ma dell’immagine. Ho iniziato con un libro che uscirà a breve Il piccolo Messia, che racconta l’infanzia di Gesù coinvolgendo lo scrittore Carlo Martigli che ha scritto molto sulla figura del Cristo. Su questa base lavoreremo al film. Per completarlo, ho coinvolto mio figlio Giovanni come produttore esecutivo, e Rashid Benhadj che dirigerà il film. Stiamo lavorando a una narrazione che parta da un’intuizione pittorica, si estenda al cinema e arrivi dritta al cuore dei giovani con un tono non drammatico ma favolistico».
Il progetto vede anche una consulenza storica religiosa?
«Assolutamente. Tengo molto a essere in linea con la visione della Chiesa. Per questo ho condiviso il progetto con monsignor Davide Milani. Gli ho mostrato il romanzo e gli elementi simbolici. Monsignor Milani ha compreso il valore spirituale del progetto e lo ha sostenuto con entusiasmo».
Può anticiparci qualcosa della trama?
«Il film parte dalla fuga in Egitto e si ispira alla figura di Giuseppe di Arimatea. Lo immaginiamo esseno e prozio di Gesù e di suo cugino Giovanni Battista: nel romanzo e nel film lui invita la Sacra Famiglia a rifugiarsi nei monasteri esseni in Egitto, poi al rientro dopo la morte di Erodemanderà i ragazzini a studiare in una scuola essena in Palestina dove due bambini così brillanti affronteranno il loro percorso educativo. Si racconta il viaggio, il contesto culturale, la crescita intellettuale e spirituale del piccolo Messia. Il Vangelo si ferma con “crebbe in sapienza”, ma noi vogliamo esplorare il significato di quella sapienza».
A proposito: come si è evoluta la sua arte dalla pellicola al digitale?
«Ho iniziato con la pellicola e l’ho usata per la maggior parte dei miei film. Ma nel 2015, lavorando con Woody Allen, l’ho convinto a passare al digitale, oltre che ai colori saturi, mentre lui amava il bianco e nero e l’ocra. Technicolor e Kodak erano ormai chiuse, e abbiamo scoperto che il digitale, se ben usato, è uno strumento straordinario. L’importante è avere un’idea forte: la tecnologia deve servire alla visione, non sostituirla».
Crede che i giovani oggi sappiano usare davvero la luce?
«Molti si affidano alla luce naturale, che è bellissima, ma non sempre è quella giusta per la scena. Usare la luce è come usare un linguaggio. Nei miei libri ho scritto che servono studio, volontà e visione per imparare a scrivere con la luce. Non è solo tecnica, è filosofia dell’immagine».
Ha collaborato con registi italiani e internazionali contribuendo a rendere i loro film dei capolavori. Che differenze ha notato?
«Ho avuto la fortuna di avere grandi maestri con cui ho cominciato come Giuseppe Patroni Griffi, Franco Rossi e Giuliano Montaldo. Loro mi hanno insegnato una cosa molto italiana, che in ogni film occorre trovare un’idea figurativa. Poi ho collaborato con Bertolucci e quando Coppola ha visto i nostri film mi ha voluto per Apocalypse Now. Mi disse: «Amo la tua visione, tu e Bertolucci siete unici. Hai carta bianca, porta tutto quello che vuoi». E poi ho lavorato con Allen negli ultimi cinque film. Ognuno mi ha insegnato qualcosa. Ricordo Luca Ronconi che conosceva l’Orlando Furioso a memoria: io dovevo trasformare la sua parola in immagine. Mi ha insegnato a immaginare l’immaginazione.
E oggi, cosa sogna per il cinema italiano?
«Sogno un cinema che torni a essere cultura e bellezza. Con questo film sull’infanzia di Gesù vogliamo mettere in campo il meglio dell’Italia: attori, musiche, costumi, una vera eccellenza. Ma soprattutto vogliamo offrire una luce ai giovani, una stella che li guidi. Perché la luce non serve solo per vedere. Serve per capire».