domenica 18 dicembre 2016
Islam e violenza, la tesi stranamente simile di tre autori di diversa estrazione culturale: dietro la radicalizzazione “religiosa” si cela anche un conflitto tra differenti generazioni di immigrati
La preghiera islamica del venerdì nella Grande moschea di Strasburgo, in Francia

La preghiera islamica del venerdì nella Grande moschea di Strasburgo, in Francia

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Tre libri, tre autori, altrettante prospettive diverse (in parte complementari) per decifrare uno dei grovigli culturali del nostro tempo, esacerbato da recenti fatti di cronaca: il rapporto tra islam e violenza. In Francia è esplosa una vera e propria mania editoriale sul tema all’indomani degli attentati al Bataclan e allo Stade de France, che nel novembre del 2015 seminarono morte e panico, sconvolgendo un intero Paese e mettendo sotto choc l’Europa tutta. Nel florilegio di produzione saggistica e giornalistica d’Oltralpe, come tentativo di capire e di dare un ordine a tutto ciò, sono da segnalare tre firme: Olivier Roy (un 'laico'), Rachid Benzine (un musulmano), Adrien Candiard (un cattolico).

Iniziamo dal primo, studioso dell’Istituto universitario europeo di Firenze, il quale ha sviluppato in Le djihad et la mort (Seuil, pp. 144, euro 16) la tesi di cui è da tempo sostenitore (con non poche polemiche: dissente da lui ad esempio Gilles Kepel, celebre islamologo). A suo giudizio, quella cui stiamo assistendo non è la radicalizzazione dell’islamismo, bensì l’islamizzazione del radicalismo che sta infettando – come un male oscuro – molta gioventù a livello globale.

Roy distingue tra radicalità religiosamente ispirata e violenza («La radicalizzazione violenta non è la conseguenza della radicalizzazione religiosa»); evidenzia il tratto sociale di tale infatuazione per le scelte estreme («La radicalizzazione non avviene al di fuori del contesto sociale dei giovani radicali») e ne individua alcune particolarità della dimensione religiosa. Anzitutto il fatto che a diventare violenti – cioè terroristi – siano soprattutto giovani immigrati in Europa o in Occidente di seconda o terza generazione. Perché? Le risposte di Roy sono di carattere culturale («L’esculturazione del religioso spiega la sua ricostruzione sotto forma fondamentalista »), si riferiscono ai rapporti tra generazioni (l’islam dei figli non è più quello dei padri, si è trasformato da semplice fattore religioso a elemento identitario, per di più anti-sociale) e ha a che fare con un fenomeno nuovo, le conversioni all’islam (integrista) da parte di giovani europei: i 2/3 dei foreign fighters partiti dall’Europa (in totale circa 5mila giovani) sono nuovi credenti in Allah.

Roy ha buon gioco nel fare un parallelo tra le stragi che di tanto in tanto insanguinano campus e università d’America e quanto avviene in Medio Oriente: a suo giudizio, in pratica, il Daesh sarebbe una sorta di 'Columbine islamica' su larga scala, prendendo a prestito la tragica vicenda occorsa in Colorado nel 1999, quando due studenti armati uccisero 12 tra compagni e insegnanti prima di darsi la morte. Senza smentire del tutto il legame tra fede islamista e scelta violenta, Roy rintraccia così il profilo del jhadista di oggi in Europa: «Un giovane immigrato di seconda generazione o convertito all’islam, molto spesso coinvolto in fatti di micro-criminalità, senza quasi nessuna educazione religiosa ma con un rapido e recente percorso di conversione o riconversione, in un ambito di un gruppo di pari età o su internet, o nell’ambito di una moschea».

E rientra in questo profilo la protagonista (immaginaria) di un altro libro da non perdere, il cui titolo va spiegato: Nour, pourquoi n’ai-je rien vu venir? (Seuil, pp. 96, euro 13) Lo si potrebbe tradurre così: «Nora (nome ipotetico della figlia dell’autore), perché non ho capito quel che stava succedendo? ». La costruzione è davvero avvincente: l’autore – Benzine, intellettuale islamico moderato autore una decina di anni fa di Nuovi pensatori dell’islam (Pisani), libro-inchiesta sulle punte avanzate dell’intellighenzia islamica aperta al confronto con la modernità – imbastisce un racconto epistolare tra un padre, professore universitario musulmano, e la figlia, partita in Iraq come miliziana per il Daesh.

In uno scambio serrato di missive si dipanano le incomprensioni tra le due generazioni che già Roy evidenziava. Padre e figlia sembrano parlare due alfabeti diversi, l’uno si rifà alla razionalità, l’altra alla forza bruta. Ma è ad un certo punto che Nour svela il nocciolo della questione: «A partire dagli stessi valori – dei valori, papà, che tu mi hai inculcato – noi abbiamo preso cammini diversi. Tu pensi che la Salvezza viene dalla preghiera, dalla meditazione, dallo studio tramite la ragione. Ma a questo io non ci credo più perché è tempo di agire». E così Nour ha trovato a Fallujah un posto dove «la sharia serve per organizzare una società serena, senza ladri, senza povertà, che privilegia il bene, la morale, l’equilibrio e il benessere di tutti». La figlia rimprovera al padre la vacuità della tua vita di ricerca intellettuale, proprio quando c’è gente che soffre la fame e la mancanza di libertà». Anche qui il radicalismo di Nour sembra riecheggiare qualcosa dell’analisi di Roy: «I Paesi arabi sono ciechi nelle loro chimere nazionaliste, socialista o nell’occidentalizzazione ad oltranza. Per cosa? La decadenza, la povertà, la schiavitù ».

Infine, è da gustare un piccolo testo (provocatorio fin dal titolo) di un giovane religioso domenicano di stanza a Il Cairo, docente nel prestigioso Institut domenican d’études orientales, Adrien Candiard: Comprendre l’islam o plutôt: pourquoi on n’y comprend rien (Flammarion, pp. 128, euro 6). Il giovane e brillante islamologo sostiene che «più cerchiamo di spiegare l’islam, meno lo capiamo». Il perché è presto detto: non esiste un islam, come noi occidentali vorremmo per formazione e per chiarezza: «Le teologie islamiche, le teorie del diritto, le spiritualità (o il rifiuto della spiritualità) giocano il loro ruolo nell’insieme complesso delle casualità».

Candiard in veloci pennellate dimostra come sia sbagliato sottoscrivere la facile affermazione per cui il Corano sarebbe irrazionale e l’islam incompatibile con la democrazia. Così com’è fuorviante l’errore dell’Occidente di costruirsi interlocutori affidabili e compiacenti incapsulati nel cliché giornalistico 'islam moderato': «Io spero di non essere un cristiano moderato, e credo che la domanda sottintesa è che non ci siano musulmani moderati, ma della gente moderatamente musulmana». Mentre quello che all’islam oggi si deve chiedere – e che può dare, sostiene Candiard – è altro: «Credo che nella tradizione musulmana esista una radicalità più profonda, più autentica: l’incontro di Dio nella preghiera personale più che nell’attentato suicida».

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