venerdì 14 giugno 2019
Il successo delle serie israeliane su Sky e Netflix stanno cambiando il paese e la sua percezione all'estero fuori dai cliché. L'attore Lior Raz: «Ci seguono anche nei Paesi arabi»
Una scena della serie Tv israeliana “False Flag”. Da sinistra, Yiftach Klein, Lihi Kornowski e Miki Leon

Una scena della serie Tv israeliana “False Flag”. Da sinistra, Yiftach Klein, Lihi Kornowski e Miki Leon

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«Ora capisco questo improvviso aumento di followers italiani su Instagram». Sorride, Miki Leon, l’attore che interpreta il personaggio di Eitan Kopel in False Flag (in ebraico Kfulim, “duplicati”), la serie Tv israeliana la cui seconda stagione è appena cominciata in Italia, su Sky. Un successo clamoroso, che ha stupito anche gli stessi protagonisti, e che sta raccontando Israele in modo convincente, avvicinando il Paese a un pubblico televisivo sempre più ampio.

Miki Leon "ambasciatore" di Israele all'estero

MIki Leon interpreta il ruolo di un agente dei Servizi segreti israeliani (prima il Mossad, poi lo Shin Bet) nella serie che, ispirata a fatti realmente accaduti, racconta la storia di normali cittadini israeliani finiti nel mirino dell’intelligence. «Da agente dei Servizi nella fiction, mi sono ritrovato improvvisamente ad assumere il ruolo di ambasciatore di Israele all’estero nella vita reale. Ne sono lusingato. Ma è anche una grossa responsabilità», spiega Leon. Perché la telecamera ribalta la prospettiva e mette a fuoco un Paese di cui si parla molto e si sa molto poco. «Sono tantissimi i fan che mi scrivono, da diverse parti del mondo, dove la serie è trasmessa. Fanno domande, su di me, ma anche sul Paese: vogliono conoscermi e vogliono conoscerci», sottolinea Leon.

Il suo è un personaggio ruvido, non facile. Ma piace molto. «Perché? Perché è vero, umano, almeno credo». E sa rappresentare aspetti inediti, lontani dallo stereotipo. «Non viene raccontata solo la vita avventurosa degli agenti della sicurezza, ma quella di persone comuni che fanno quel lavoro. In questa seconda stagione, per esempio, mio figlio si trova a dover andare in guerra e, di colpo, da bad guy, divento un padre di famiglia come qualsiasi altro. Credo che il pubblico si accorga all’improvviso che in Israele siamo genitori come tutti gli altri ma con una difficoltà in più: abbiamo figli che a un certo punto della vita devono arruolarsi e andare a combattere, e non si tratta di un’eccezione, ma di una realtà dolorosa, che non ci piace né ci diverte, ma con cui, necessariamente, dobbiamo fare i conti tutti i giorni».

Shtisel: dentro la quotidianità di un mondo "altro"

Eitan riesce a trasformare una dimensione lontana e difficile da comprendere come quella della sicurezza israeliana nella storia del ragazzo della porta accanto. Cosí come Akiva e Doron: i protagonisti delle altre due serie israeliane che, grazie alla piattaforma di Netflix, hanno riscosso un enorme successo nel mondo: Shtisel e Fauda. Akiva, interpretato da Michael Aloni, è un ebreo ultraortodosso nella serie che – arrivata alla sua seconda stagione – racconta la storia degli Shtisel, una famiglia di haredim che vivono nel quartiere ultra-ortodosso di Mea Shearim, a Gerusalemme. Akiva, è il figlio minore, tarda ad accasarsi – il che contravviene ai precetti religiosi della comunità religiosa a cui appartiene – e per giunta, pur insegnando religione di giorno, di notte si dedica alla sua vera passione: la pittura (altra attività non particolarmente apprezzata nella comunità ultraortodossa, specialmente dal padre rabbino). Perennemente innamorato della donna sbagliata, Aloni rappresenta magistralmente un moderno (e al tempo stesso antichissimo) “Romeo errante”, perso tra impossibili Giuliette, che riflette sull’amore da un balcone pericolante in una Gerusalemme trafficata come New York.

La serie riesce a tenere per mano lo spettatore dentro i misteri di un mondo “altro”, tra donne che fanno tre lavori per mantenere cinque figli e uomini che si dedicano agli studi biblici nelle yeshivah. Un mondo a distanza siderale dalla nostra attualità, ma che grazie a questa serie è riuscito a conquistare non solo gli israeliani che vivono nella Tel Aviv secolare e che non dorme mai, ma anche spettatori ai quattro angoli del mondo. «Quando abbiamo cominciato la prima stagione non ci saremmo mai immaginati che ci sarebbe stata una seconda, e che l’avrebbero guardata anche al di fuori di Israele», commenta incredula Dikla Barkai, produttrice di Shtisel. Mentre Alon Zingman, il regista, rivela il segreto del successo: «È il primo Tv show tra quelli che indagano il mondo degli ultraortodossi che non si occupa del conflitto interno (religiosi/laici) né dei cliché legati alla religione. Semplicemente, racconta la vita dei protagonisti così com’è, per cui dopo cinque minuti ci si dimentica chi sono, come si vestono e cosa mangiano (o non mangiano) e ci si sente immediatamente parte della loro comunità».

Il conflitto con i palestinesi fuori dagli stereotipi

A porre lo sguardo sul conflitto tra israeliani e palestinesi è, invece, Fauda (“caos”, in arabo): la serie che ha ottenuto il maggior successo su scala internazionale, ormai in produzione della sua terza stagione, votata dal New York Times come miglior serie straniera del 2017. Un racconto molto crudo, centrato sulle missioni di un’unità speciale delle forze di difesa israeliane, i cui soldati sono addestrati per infiltrarsi tra gli arabi nei Territori palestinesi. Il protagonista è Doron Kabilio, interpretato da Lior Raz. «Per tutti noi è stata una grande sorpresa – racconta –: non solo il successo internazionale ma anche quello in Israele, perché ciò che mostriamo non è esattamente quello che si aspetterebbero molti dei nostri connazionali e soprattutto molti dei nostri politici: il lato umano di israeliani e palestinesi, con tutti gli errori che si fanno da una parte e dall’altra».

Completamente fuori dagli stereotipi, la serie si sforza di mantenere uno sguardo equilibrato, pur senza perdere efficacia, e tenendo sempre lo spettatore sul filo. C’è molta violenza, questo sì. Ma mai fine a se stessa, e sempre vissuta con una forma di empatia e rispetto nei confronti del nemico. «Credo siamo comunque riusciti a trasmettere l’idea che una possibilità di dialogo tra arabi e israeliani esista. Inoltre – continua Raz – la maggior parte della serie è parlata in arabo, e tanti, qui in Israele, si sono messi improvvisamente a studiarlo: è diventato un vero fenomeno collettivo. E se c’è una cosa che abbatte le barriere culturali è la conoscenza della lingua. Per la stessa ragione, sono moltissimi gli arabi che seguono la serie: qui in Israele i palestinesi mi fermano per strada, esprimendo simpatia, ricevo quotidianamente mail da cittadini arabi tutto il mondo. È un messaggio che fa sperare. In fondo non siamo così diversi».

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