venerdì 16 marzo 2018
Unica via per rendere meno tremenda la miseria dilagante, i due monoteismi convivono seguendo il motto della "religione dell'unità"
Un baobab nella savana senegalese

Un baobab nella savana senegalese

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I musulmani sono il 90% della popolazione, i cattolici meno del 10%. Eppure in Senegal le due confessioni non coabitano ma convivono. «La nostra è la religione dell’unità» dice padre Paul Marie Mandika nell’omonimo documentario di Nicola Tranquillo dell’associazione Formazione Solidale. Nella stesso nucleo familiare vi sono islamici e cattolici e tra loro c’è rispetto e spesso gli uni sono presenti alle manifestazioni religiose degli altri. La scelta confessionale è propiziata dalle circostanze, ma sovente è il genitore che pone la domanda, lascia la libertà di decidere. Ciò è conseguenza del modo di vivere sociale e delle tradizioni e della sensibilità comune della gente e altresì della storia recente del Paese, segnata a fondo da Léopold Sédar Senghor, grande poeta e primo presidente del Senegal indipendente, cattolico in un Paese musulmano. Bello e povero (il suo emblema è il baobab, albero secolare e vero spettacolo della natura africana), il Senegal è terra di pace e di dolore. Qui, nell’isola di Gorée, patrimonio dell’umanità, fino al 1848 sono stati ammassati per tre secoli milioni di neri, strappati alle terre d’origine per essere trasportati da schiavi nelle Americhe.

Visitare La Maison des Esclaves è entrare in un museo dell’orrore: piccoli ambienti a volte senza aperture, in cui povera gente veniva divisa per età, sesso e persino per peso, segregata e torturata, collocata in centinaia in uno stesso vano per giorni, per settimane, per mesi, prima di essere imbarcata per un viaggio senza ritorno, passando per un angusto corridoio affacciato alla scogliera atlantica. Il popolo senegalese possiede uno spirito sapienziale; è mite, accogliente, ma la miseria, nonostante i progressi compiuti dal Paese negli ultimi anni, è talora disarmante. La capitale, Dakar, è una metropoli bella e caotica, ma nel cuore dei villaggi dove scarseggia l’acqua, aperti alla campagna rossa e arsa, ti imbatti di frequente in frotte di bambini abbandonati a se stessi, scalzi, laceri, in cerca di elemosina. Sono i Talibé, creature di cui spesso neppure si conoscono nome, data di nascita, provenienza. Vengono affidati ai Marabout, autoproclamati santoni che promettono di assumersi la loro cura educativa. In realtà il più delle volte i bambini sono ridotti all’accattonaggio. Per essi è sorto il centro Les enfants d’Ornelle a una quarantina di chilometri dalla capitale. «Per aiutarli, per salvarli bisogna lottare con le complessità del tessuto sociale, intervenire senza prevaricare, rispettare gli usi locali – dice Severino Properzio, italiano, fondatore del centro –. E non bastano l’aiuto economico e l’intervento umanitario. Bisogna promuovere in prospettiva iniziative di riscatto sociale: corsi di recupero e di formazione, per avviarli all’acquisizione di abilità e competenze».

Pure la miseria, come è spesso nel continente nero, si accompagna ad una grande serenità, alla gioia del vivere quotidiano, alla cordialità, all’amicizia. In questo clima il dialogo interreligioso è profondo, concreto, vitale. Spesso i cimiteri sono comuni, come quello di Joal Fadiouth. Su di un isolotto quasi interamente ricoperto di conchiglie, nella luce indimenticabile dei tramonti afri- cani, brillano le croci dei cristiani e le mezzelune delle tombe musulmane, unite nel comune viaggio verso l’infinito. Sempre a Joal Fadiouth si trova uno dei santuari cattolici più importanti del Paese, la chiesa di Saint François Xavier. La messa è una festa di colori e di suoni, di cori e di invocazioni. Durante la processione cattolica che da molti anni in primavera porta al santuario della Madonna nera di Popenguine, migliaia di fedeli provenienti da Dakar e da vari centri del territorio, attraversando a piedi lungo la costa decine e decine di villaggi battuti dal vento, all’altezza di Toubab Dialaw li accoglie Assane ’Ndiaye, musulmano: «I primi anni giungevano in pochi, stanchi e affamati – racconta l’anziano –. Dissi alla mia famiglia di accoglierli e di preparare loro da mangiare e da bere. Poi i pellegrini crebbero in numero. Allora pregai altre famiglie del villaggio di unirsi a me e di partecipare alla festa per i nostri ospiti. Nessuno ha messo mai in discussione la mia iniziativa. Oggi i pellegrini sono migliaia. Per noi sono fratelli e noi li accogliamo come fossero la mia famiglia. Quando senti la stanchezza, che tu sia cattolico o musulmano, hai bisogno di aiuto. Ciascuno non può che augurare all’altro la pace».

Accade così anche nelle altre feste del Paese. Come in quella del Sacrificio di Abramo, la festa musulmana del Tabaski. Vi partecipano anche i cattolici e quello che c’è da mangiare è per tutti. «Noi siamo per la religione dell’unità» è scritto nuovamente sulle pareti del cattolico Collége de la petite côte a Joal Fadiouth; sul muro di cinta sono rappresentati i simboli delle tre religioni monoteiste. Anche nelle confraternite sincretiste, come quella di Layene, di fede musulmana sufi, fondata da Sedyna Limamou Laye, prevale non la riassunzione dei credi, ma la loro coabitazione basata sulla comune umanità. Le scuole, infine, sono miste. Quelle cattoliche sono in gran parte frequentate da bambini musulmani. «Siamo sereni nell’accoglienza e nella formazione. Per noi sono bambini e basta – dice Bernadette Madi, direttrice della scuola elementare di Popenguine –. Il lunedì facciamo Educazione morale, lavoriamo su principi comuni e universali, solo nei giorni successivi si diversificano le preghiere, ma il cammino educativo è lo stesso. Come è giusto che sia».

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